È stato condannato a 20 anni di carcere Domenique Pelicot, per aver stuprato, anche ingaggiando terze persone, altri 50 uomini imputati, sua moglie Gisèle mentre era incosciente perché sotto l’effetto di sostanze che le erano state somministrate a sua insaputa. I fatti risalgono al periodo che va dal 2011 al 2020. L’uomo venne infatti arrestato nel 2020 per altri reati, sempre a sfondo sessuale e nel suo computer gli inquirenti trovarono le immagini degli stupri.
Pelicot era accusato di aver somministrato benzodiazepine a Gisèle per poterla stuprare approfittando del suo stato di incoscienza. Quindi senza il suo consenso. In un primo periodo l’uomo avrebbe stuprato personalmente Gisèle e successivamente avrebbe contattato altri uomini sconosciuti, affinché si recassero presso l’abitazione coniugale per abusare di sua moglie.
Gli stupri erano ripresi, pertanto oggi documentati. Gisèle è venuta a conoscenza in questo modo, attraverso quelle immagini, che le sono state mostrate dagli inquirenti, di ciò che aveva subito per quasi dieci anni. La donna ha deciso quindi di denunciare suo marito e gli altri 50 uomini coinvolti e ha scelto di divorziare.
Inoltre Gisèle ha scelto di rinunciare al diritto all’anonimato e a un processo a porte chiuse (diritti garantiti per reati di questo tipo) chiedendo al contrario, che le telecamere e i media entrassero nell’aula del Tribunale di Avignone in cui si è tenuto il processo, affinché il mondo sapesse. “La vergogna è loro” ha dichiarato Gisèle.
Ecco che, a prescindere dalla sentenza di condanna e dalla quantificazione della pena, le scelte di Gisèle segnano una linea di demarcazione. C’è un prima e un dopo il caso Pelicot, che accende un faro importante sul fenomeno della violenza sessuale, ne destruttura gli stereotipi ancora esistenti e ne ribalta (finalmente) la prospettiva.
Lo stupratore di Gisèle, colui che ne ha organizzato gli stupri con il coinvolgimento di terze persone è suo marito, non uno sconosciuto. Un’evidenza questa che, in linea con i dati nazionali sul fenomeno, ribalta una percezione erronea ma estremamente diffusa, spesso sostenuta da una narrazione mediatica e politicamente strumentale, che sostiene che noi donne siamo maggiormente esposte al rischio di subire una violenza sessuale da parte di uno sconosciuto.
Sono, secondo l’ISTAT, più di 6 milioni le donne, tra i 16 e i 70 anni, che nel nostro Paese hanno subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. Gli stupri sono commessi da un partner nel 62,7% dei casi. Da considerare in aggiunta a questi sono gli stupri commessi da familiari o da persone che la donna conosce (come amici o colleghi di lavoro). Dati questi, sicuramente sottostimati, visto che afferisce a questa categoria la gran parte del sommerso. Secondo una ricerca condotta dalla Agenzia dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (FRA), su un campione di 42.000 donne, solo il 10% di loro ha denunciato lo stupro commesso da un partner.
Un altro immaginario diffuso che è possibile destrutturare attraverso l’analisi di questo caso riguarda il “profilo” dello stupratore. Siamo spesso portati a pensare che chi abusa di una donna sia un soggetto disfunzionale, magari con una carriera criminale alle spalle, con una dipendenza o una patologia riconosciuta. Anche in riferimento a ciò la casistica ci restituisce un dato di realtà completamente differente, in linea con quanto emerso nel corso delle indagini.
I 51 uomini che hanno stuprato per quasi dieci anni Gisèle rappresentano un ampio spettro della società. Gran parte di loro sono padri, la metà è sposata o ha una relazione stabile, provengono da diverse classi sociali e hanno differenti livelli culturali. Sono “uomini comuni” insomma, come li ha definiti lo psichiatra nominato dalla Corte. L’unico elemento che li accomuna, oltre al fatto di essere uomini, è che utilizzavano chat on line per scambisti.
Questa vicenda accende inoltre un faro sul fenomeno degli stupri commessi in condizione di sottomissione chimica. Situazioni queste ricorrenti, soprattutto tra i giovani e giovanissimi. Un fenomeno probabilmente in aumento, o che forse iniziamo a rilevare in maniera sistematica, che evidenzia la necessità di strutturare campagne di sensibilizzazione, azioni condivise di analisi e di avere leggi che definiscano quello che in tema di stupro è un nodo centrale, il consenso.
Nella maggior parte dei casi le vittime di violenze sessuali subiscono rivittimizzazioni istituzionali perché le loro denunce vengono archiviate sulla base di un’assenza di prove a sostegno del riferito della persona offesa. Tutto ciò si complica ulteriormente quando lo stupro è stato commesso mentre la donna era in uno stato di coscienza alterata dovuto alla somministrazione di sostanze.
Ma dicevamo, Gisèle Pelicot attraverso le sue scelte è riuscita a ribaltare la prospettiva. Se il 90% delle donne che hanno subito violenza sessuale da parte di un partner o ex sceglie di non denunciare, è perché nella stragrande maggioranza dei casi le donne hanno paura di non essere credute o perché si vergognano della violenza subita.
Non si può trascurare il condizionamento prodotto dalle modalità con cui i processi per stupro venivano e, in certi casi, ancora oggi vengono condotti, così come dal giudizio sociale che frequentemente colpisce le vittime, nelle cui condotte si tenta, oltremodo, di trovare una responsabilità per ciò che hanno subito. In alcuni casi si rileva ancora una difficoltà nell’acquisizione di consapevolezza in riferimento al reato specifico, soprattutto quando questo viene compiuto all’interno di una relazione di intimità.
Per troppo tempo la violenza maschile contro le donne, e con essa la violenza sessuale, è stata considerata come un “fatto privato”, di cui era meglio non parlare. Oggi Gisèle quel fatto ha deciso di portarlo al mondo, a testa alta. Affinché le dinamiche, soprattutto le responsabilità (la vergogna) fossero chiaramente definite. “È ora di cambiare il modo in cui guardiamo allo stupro” ha affermato Giséle, e indubbiamente il suo contributo in tal senso, è stato determinante.