Per ora – incrociamo le dita – non c’è né sfascio, né caos ad accompagnare la riapertura delle scuole.
Ci sarà, è fisiologico. Perché la passione e la buona volontà non possono riempire le cattedre vacanti, né far comparire aule che non esistono, o aumentare le corse degli autobus. E no, non eviteranno nemmeno i fisiologici contagi, le quarantene, le chiusure, le polemiche, come è successo ovunque altrove in Europa.
Eppure, alla fine, ce l’abbiamo fatta. E, salvo eccezioni, in quasi tutte le scuole d’Italia ci sono gli ingressi separati, i banchi distanziati, le mascherine in faccia e nello zaino, e un protocollo di riapertura – giusto o sbagliato, chiaro o confuso che fosse – che sembra essere stato recepito da buona parte degli istituti scolastici, dagli insegnanti e dalle famiglie.
Ecco: per una volta evitiamo di parlare di politica, nel bene o nel male. Nel dividerci tra chi avrebbe riaperto prima o dopo, uguale o diverso. Nello stigmatizzare senza alcuna indulgenza gli errori e le ingenuità commesse da chi – ai vertici o meno – ha dovuto gestire la riapertura di un sistema che impiega quasi due milioni di persone e serve otto milioni di studenti e relative famiglie.
Piuttosto, parliamo di un milione di insegnanti felici di ricominciare e di rivedere i loro alunni, e che insieme ai loro dirigenti scolastici hanno passato l’estate a rivoluzionare i loro istituti, pur di permettere ai loro alunni e ai loro studenti di tornare a frequentare la scuola, per evitare il prolungarsi di una chiusura storica. Parliamo di bambini e ragazzi contenti di stare assieme per nulla turbati dalle mascherine, o dall'idea di entrare in momenti leggermente diversi, da ingressi diversi, molto meno nel panico di quanto lo siano i loro genitori, che forse dovrebbero preoccuparsi di trasferire meno ansia ai loro figli.
Parliamo, soprattutto, del valore sociale della scuola. Una valore di cui ci dimentichiamo troppo spesso, se non quando crolla un soffitto in un’aula fatiscente, o quando leggiamo i dati sulla dispersione scolastica in qualche periferia disagiata o in qualche area interna del Paese. Di sicuro, non quando a ogni legge di bilancio vedevamo l’istruzione mortificata da continui tagli.
Teniamocela stretta allora, quell’assenza. Una delle più dolorose del lockdown, ma anche una delle più salutari e istruttive, forse. Perché buona parte di quella forza di volontà, di quell’entusiasmo, di quella voglia di ripartire da parte di insegnanti, alunni, famiglie, politici è figlia di quell’assenza, di quella innaturale interruzione. Che forse ci ha fatto capire che le scuole sono le cattedrali laiche della nostra società, il senso della presenza dello Stato in ogni piccolo pezzo di Paese, l’architrave su cui poggia il futuro della nostra comunità, ciò di cui dovremmo più andare orgogliosi.
Se da domani, tutto questo si tradurrà in un ulteriore investimento negli edifici e nell’arredo scolastico, in nuove metodologie di apprendimento a partire dalla didattica a distanza complementare, in una nuova e importante valorizzazione delle competenze del corpo docente attraverso massicci programmi di investimento nella loro formazione, vorrà dire che questo lungo stop non sarà stato vano. Che, perlomeno, il Coronavirus ha fatto il miracolo di farci ricordare quanto sia necessaria la scuola per il progresso di una comunità.
Ora tocca a noi, però. Ora, non dimentichiamocelo più.