Castel Volturno è l’avamposto e centro di insediamento della mafia nigeriana, ed è nell’anno 2000 che il Commissariato della città del litorale campano porta a compimento l’operazione Restore freedom. Per la prima volta si indaga per i reati di 416bis. Quell’informativa stilata nel cuore nero dell’Italia, appunto a Castel Volturno, è ancora il modello cui fanno riferimento la Polizia di Stato e la magistratura inquirente. Per la prima volta, con l’avvio del nuovo millennio, si ipotizzano reati di mafia per gruppi criminali nigeriani. Allo sfruttamento della prostituzione e al traffico di droga vanno ad aggiungersi altri reati “esotici”: tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù. Castel Volturno è individuata quale base le cui ramificazioni arrivano nel Nord Italia. L’attività di polizia risana un ritardo di almeno vent’anni nello studio e nella comprensione del fenomeno.
Eppure il 24 aprile 1990 c’è già la Strage di Pescopagano. Il clan La Torre di Mondragone non tollera lo spaccio di droga nel suo territorio per mano straniera e restano sul selciato cinque morti e sette feriti. Stranieri e italiani in egual misura. Spacciatori e innocenti gettati insieme in un’unica mattanza. Cadono sotto i colpi Haroub Saidi Ally, Ally Khalifan Khanshi, Hamdy Salim tanzaniani. Trasportati in ospedale, la polizia troverà addosso confezioni di eroina. Gli innocenti sono Naj Man Fiugy iraniano, che voleva solo bere una birra come Alfonso Romano. Ironia della sorte, solo un mese prima, Romano era stato intervistato dalla trasmissione Samarcanda, e aveva puntato il dito contro l'assenza di sicurezza. Verso gli immigrati piuttosto che verso i camorristi che poi compiranno la strage. Un altro innocente è un giovane ragazzo italiano, figlio del gestore del bar dove avviene la parte della strage, rimane ferito alla spina dorsale, e rimarrà paralizzato a vita. Tra i feriti tre tunisini di 19, 20 e 31 anni e un turco di 27 anni.
Aprile del 1990: tanzaniani, iraniani, tunisini, marocchini, turchi, egiziani. Ci sono tutti al Sud. Ma le lancette del tempo devono scorrere all’indietro: il 5 dicembre del 1986 un ghanese viene sparato sulla Domiziana. Il 25 ottobre del 1986 è ferito a colpi di arma da fuoco Stefan Mustafà Dia. I killer della camorra lo sorprendono a Castelvolturno. In ospedale, la polizia gli trova quasi venti milioni di lire addosso. La comunità africana sta entrando in un nuovo affare quello della droga, i primi che se ne rendono conto sono i poliziotti di Castel Volturno che oggi sono quelli che meno si meravigliano della mafia nigeriana. Ecco che trenta e più anni fa una geografia delle migrazioni si disegnava nel Sud con una strage dimenticata, una strage di camorra in guerra per il territorio dello spaccio. Ma non finisce qui.
Il 18 settembre del 2008 sarà ancora un’altra strage: sette morti, tutti di origine ghanaese. Nessuno implicato in attività criminali. Setola, l’autista dei boss casalesi che si incorona egli stesso boss, compie una strage nella sartoria Ob Ob Exotic Fashion, che dista pochi chilometri da Pescopagano: è tutto litorale domizio, dimenticato e dimentico. In queste terre dove il cemento abusivo arriva fin dentro la spiaggia, il fenomeno della mafia nigeriana prende forma e potere. Sono in migliaia a essere sfruttati nelle campagne. Qualcuno diventa ovulatore, ingoia bustine di droga, vola a destinazione (non si va assolutamente su un barcone con un carico prezioso di droga), defeca la droga, prima che le bustine si rompano e si muore. Pochi tra loro comandano ma sempre e devotamente sono sottomessi ai bianchi perché le mafie italiane non cedono un centimetro del loro territorio e mai lo faranno. Moltissimi gli arresti con annessa radiografia, perché solo così si possono scovare gli ovulatori, guardando nelle loro viscere si espande sempre più un mercato, quello della droga e della prostituzione, alimentato solo e comunque dall’uomo bianco. Un mercato che diventa sia bianco che nero.
Con l’operazione Niger – nel 2006, a Torino – si registra la prima condanna per mafia per un gruppo di criminali provenienti dall’Africa, toccherà poi a Napoli, con l’Operazione Viola, nel 2008. Un susseguirsi di arresti, ma le condanne per mafia dei Cult, ovvero i clan nigeriani, sono complesse. I Cult nascono nelle università, prima in chiave anticoloniale, poi come braccio armato della lotta politica, poi diventano imperi criminali che conquistano completamente il potere politico. Le gang africane si strutturano come “cupola” in Italia, apprendono “i codici mafiosi” in Italia – come scrive la Procura di Napoli – dopo Castel Volturno anche Palermo diventa punto di riferimento nella geografia, ma è soprattutto Torino, base per tutto il Nord Italia, il centro nevralgico di questa struttura criminale.
La mafia nera – allogena – è funzionale a quella bianca, svolge il lavoro sporco e pericoloso: spaccio e prostituzione, crea allarme sociale, distrae le forze dell’ordine da appalti, corruzione e infiltrazione nell’economia legale che sono i campi di azione delle mafie indigene. La mafia nigeriana non può e non aspira a corrompere un sindaco, un’amministrazione e non concorre per gli appalti pubblici. Come tutte le mafie, tendono al denaro, le gang: un accumulo di soldi che ritorna in forma di rimesse alla casa madre in Nigeria. È un flusso di contante per comprare armi e, con queste, il potere politico. Le mafie sono uguali dovunque ma ognuna torna a casa propria. Come Cosa Nostra s’è incardinata nel mondo attraverso l’emigrazione, allo stesso modo la mafia nigeriana ha seguito le rotte migratorie. E come per ogni mafia, i primi a essere sfruttati, sottomessi e uccisi sono i propri connazionali: uomini, donne e bambini che diventano le ombre di questo racconto sulla mafia nigeriana.
I gruppi criminali africani controllano oggi le periferie di molte grandi città del Nord Italia dove le mafie nostrane non hanno nessun interesse. Nella più stanca delle analisi si ritiene che ogni spacciatore nero sia mafioso – un assioma che non funziona per i bianchi – e si accresce la confusione. La mafia nigeriana è fluida ed estremamente mobile; usa fantasmi, e cioè persone senza documenti. Nella visione da avanspettacolo che sorge dall’opinione pubblica la mafia nigeriana, a Castel Volturno – dove manca tutto – gestisce il traffico di organi ma è credibile che si riesca a fare un espianto di parti del corpo umano in sicurezza per rivenderlo in un mercato nero ipotetico? La sensazione del “si dice”, senza una prova evidente. Anche se poi l’evidenza di migliaia senza nome, senza documenti che scompaiono senza lasciare traccia non inquieta nessuno.
Un investigatore delle forze dell’ordine mi dice: “Non draghiamo il fiume Volturno perché altrimenti ne troveremmo di cadaveri senza nome, ma non finiremmo mai più; qui ci sono solo ombre”. E mentre si crea confusione mediatica con opinioni improvvisate, mentre ci sono guerre tra clan di camorra, la domanda del mercato va soddisfatta e la mafia nigeriana è sempre disponibile per i propri clienti. Qui la loro affidabilità, loro ci sono sempre. Da piccoli spacciatori, ma non da oggi, diventano grandi broker. Nell’operazione Fantasia dei primi anni 2000, la ‘Ndrangheta divide carichi di coca con i nigeriani, le navi hanno facile accesso sulle coste del West Africa, dove i controlli sono pressoché nulli e la corruzione è totale. La mafia è anche nera, ma oggi serve quasi a copertura della pericolosità e pervasività delle nostre mafie. Quelli sono pericolosi, i nostri neanche quasi più sparano. E il pericolo è sempre di un altro straniero a noi.