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Terremoto del Friuli, quando la terra tremò da Torino e Roma e 965 persone persero la vita

A 42 anni di distanza dalla tragedia del Friuli, la memoria si è condensata in un immaginario che ci proietta direttamente nelle pieghe della disperazione da cui nasce nuova speranza.
A cura di Marcello Ravveduto
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Il duomo di Gemona
Il duomo di Gemona

Il 6 maggio del 1976 è un giorno come un altro. Un giovedì di lavoro passato ad inseguire gli affanni quotidiani. Timidamente il sole ha riscaldato la giornata e la sera, l’aria fresca delle Dolomiti, ricorda che l’estate ancora deve arrivare.

In casa le famiglie hanno già cenato; molti sono davanti al televisore a guardare un film o una trasmissione. I più piccoli stanno per andare a letto mentre le mamme si preoccupano per l’indomani pensando al pranzo da preparare, alla spesa da comprare. Chi fa il turno di notte sta per uscire; gli anziani, molto probabilmente già dormono.

Nei piccoli paesi di Gemona e Artegna, in provincia di Udine, le luci delle abitazioni sono ancora accese quando la terra comincia a tremare scuotendo uomini e cose travolti da una valanga di detriti. Il movimento tellurico raggiunge magnitudo 6.5 pari al nono/decimo grado della scala Mercalli. Non si era mai visto un terremoto del genere nella seconda metà del Novecento. L’area coinvolta interessa 120 comuni e circa 500mila persone.

L’intensità dello sciame è talmente potente da estendersi in un’area vastissima dell’Italia centro-settentrionale, fino a raggiungere Roma e a Torino. Sono colpite inoltre parte dell’Austria, della Svizzera, della Cecoslovacchia, della Germania, della Croazia, della Francia, della Polonia e dell’Ungheria, con danni e crolli in diverse zone dell’Austria meridionale ed in buona parte della Slovenia.

Alla fine si conteranno, in una superficie di 5000 Kmq, 965 morti, 3mila feriti e 17mila abitazioni rase al suolo con 200mila senza tetto. Una catastrofe che si radica, come sempre accade per eventi del genere, nella memoria collettiva della comunità friulana. I primi soccorritori ricordano che gli autotrasportatori, transitanti per le zone di Venzone, Gemona e Osoppo, dicevano: «Qui è tutto un polverone, si sentono grida in lontananza… non capiamo, forse c’è stato un terremoto». Allo schiarire della nuova giornata il sole mostra un quadro desolante: edifici distrutti, un tappeto di detriti e morte ovunque.

I friuliani, il giorno dopo la scossa, che avrà repliche altrettanto gravi nel successivo settembre, ripetono come un mantra la frase «Dov'era e com'era». Un motto al quale si aggiunge la dichiarazione, ormai famosa, dell’allora presidente della Regione, Antonio Comelli, «Prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese».

Ho provato a digitare su Youtube la data del 6 maggio 1976 trovando oltre 14mila risultati. Scorrendo le pagine si intuisce che il deposito della memoria si è condensato in un immaginario che ci proietta direttamente all’interno della tragedia. Numerosi sono i ricordi dei cittadini, ma altrettanto numerosi i video, realizzati con immagini d’epoca, ritraenti i cumuli di macerie. La vasta estensione dell’area coinvolta lo ha reso un evento memorabile e luttuoso per una buona parte dell’Europa centro-orientale.

Le rovine e i volti affranti non rimandano solo un sentimento di disperazione, anzi percepiamo come la tragedia, grazie alla forza di volontà e al desiderio di rinascita possa tramutare in speranza: insieme ai rumori del crollo ascoltiamo le voci della ricostruzione e l’eterno ritorno della vita.

Un aspetto non trascurabile di questa storia è il contributo fornito dai militari alla popolazione inerme. Un contributo che ha anche i suoi rivolti drammatici visto che la Brigata Alpina "Julia" Bandiera di Guerra, acquartierata nella caserma Goi-Pantanali di Gemona, subisce notevoli perdite.

Il 3 giugno dell’anno successivo il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, conferisce agli alpini la medaglia d’oro al valor civile con queste motivazioni: «Unità tragicamente e duramente colpita negli uomini e nelle infrastrutture dal rovinoso terremoto del 6 maggio 1976, iniziava con prontezza un'instancabile ed efficace opera di soccorso a favore delle popolazioni del Friuli e della Carnia devastate, con gli stessi reparti che, toccati dalla calamità, avevano già versato un contributo di sangue. Continuava nella sua azione con generoso slancio e profondo impegno, fornendo ogni possibile sostegno ai sinistrati, in fraterna e incondizionata dedizione. Fulgido esempio di virtù militari e di altissimo senso di abnegazione. Friuli, 1976».

Su Facebook è stato creato anche un gruppo pubblico, con 586 membri, intitolato alla “Caserma Goi-Pantanali, Gemona del Friuli 6 maggio 1976” e dedicato alla «memoria dei caduti di quella tragica notte, per i loro commilitoni ed i loro famigliari. Per non dimenticare quei giovani Eroi e per ringraziare coloro che, con le lacrime agli occhi, hanno aiutato i propri compagni e la popolazione di Gemona in quei terribili momenti».

Ma la solidarietà dei militari di Gemona non è un caso isolato. Anche il 19° Gruppo Squadroni Cavalleggeri Guide merita l’onorificenza della Presidenza. Il 4 gennaio 1978 viene conferita la Medaglia d'argento al valore dell'Esercito: «Nelle primissime ore successive al sisma in Friuli del 6 maggio 1976, raggiungeva di iniziativa alcune località disastrate, lontane dalle principali vie di comunicazione, organizzandovi tempestivi soccorsi e ripristinando i collegamenti con l’impiego di squadre eliportate. Con coraggio e generosità, esponendosi a manifesti rischi di ulteriori sommovimenti, si prodigava incessantemente nell’opera di soccorso alle popolazioni colpite, offrendo loro sostegno morale e materiale con fraterna partecipazione e valido contributo alla ripresa degli indispensabili servizi sociali”. Friuli, 6 maggio 1976 – 30 aprile 1977».

Spesso l’Italia migliore è quella che emerge con prepotente umanità nell’immane tragedia.

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