Gender Gap o “divario di genere” non è un'ossessione femminista ma in termini molto spicci si tratta del mancato sviluppo economico e benessere collettivo derivato da ciò che non si fa per migliorare la condizione delle donne, che sono la metà della popolazione del pianeta. L'organizzazione internazionale World Economic Forum, da nove anni a questa parte, ha calcolato sulla base di alcuni indici che sono salute, educazione, partecipazione economica e accesso a posti di potere il livello di uguaglianza tra uomini e donne su 142 paesi nel mondo.
L'Italia è al 69° posto (rispetto al 71° di due anni fa) tra Bangladesh e Macedonia. Ultima dei paesi industrializzati, registra un lieve miglioramento grazie al potere politico conferito da Renzi a alcune donne che fanno parte del suo governo, e grazie all'accesso di molte donne nel parlamento italiano, nelle ultime legislature. Si registra poi un miglioramento per l'indice “salute e durata della vita”: al 70esimo posto contro il 95esimo del 2010, ma un peggioramento tragico dell'istruzione: 62esima rispetto al 27esimo posto del 2006. Al 129esimo invece per uguaglianza salariale: stesse competenze e stesse mansioni per più o meno la metà del compenso economico. Inoltre, i dati complessivi di tutte le nazioni analizzate, non sono particolarmente rincuoranti. Secondo il Wef nel pianeta resta molto ampia la disparità di genere per quanto riguarda le opportunità lavorative, che in 9 anni si è ridotta del 4%, passando dal 56% al 60%. Di questo passo, hanno calcolato, che ci vorranno 81 anni per eliminare il divario: per avere la parità nel posto di lavoro bisognerà aspettare il 2095.
Il Rapporto assegna la prima posizione all'Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia e Danimarca (qui la classifica). E ben prima di noi, in una top ten dei virtuosi compaiono degli stati insospettabili come Nicaragua in sesta posizione, ottavo posto per l'Irlanda, e poi Filippine fino al decimo per il Belgio prima anche di Svizzera e Germania. La Francia è 16esima, gli Stati Uniti 20esimi e il Regno Unito 26esimo. Queste classifiche vengono stilate perché attraverso il monitoraggio si possa creare una maggiore consapevolezza nell'opinione pubblica e nei governi. E' evidente che dietro queste cifre si dovrebbero lanciare delle nuove sfide e azioni per ridurre le disparità che sono chiaramente figlie di scelte politiche e culturali arretrate.
Le condizioni per assottigliare questi divari per le donne vengono chiamate “pari opportunità”. Espressione che si deve chiarire: non significa che una donna debba trasformarsi in uomo e smettere di essere donna (un equivoco fatale che si riverbera poi in un'ottusa guerra al femminismo) ma che possa avere le stesse garanzie di accesso ai posti di lavoro di un uomo. Che la gravidanza non sia un'impedimento alla carriera, e che quindi possa accedere a posti di potere, alla stanza dei bottoni cioè, interrompendo anche la catena del ricatto alle quale si finisce per cedere e che spesso c'è nelle “nomine” femminili fatte sempre da uomini di potere.Che si creino invece le condizioni di accesso al lavoro e al salario uguali a quello di un uomo, accrescendo quindi la competitività economica dell'intero paese.
Con Berlusconi “le pari opportunità” erano la missione del dicastero di Mara Carfagna, e poi di Josepha Idem con Enrico Letta che verrà ricordata alla storia come l'”unico ministro” italiano dimesso per non aver pagato l'Imu della sua casa. Dove il divario tra i generi è minore significa che c'è stato un incremento degli elementi della competitività economica: se nel mondo la priorità è la creazione di posti di lavoro e la crescita, si tarda a capire che l’uguaglianza di genere è proprio la chiave per sbloccare l'economia. Ecco di cosa ci parlano questi dati.