1. ’O Gorizia tu sei maledetta
La rappresentazione migliore della guerra per me è una canzone raccolta da Cesare Bermani, ed entrata nel repertorio anarchico e antimilitarista.
Parlo di ‘O Gorizia tu sei maledetta, un canto rimasto anonimo, passato di bocca in bocca tra le truppe di fanteria che avevano assistito alla morte di 21.000 commilitoni, e fa così:
La mattina del cinque d'agosto
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì
Sotto l'acqua che cadeva al rovescio
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:
O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir
Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì
Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor
Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Scannatori di carne venduta
E rovina della gioventù
O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu
L’odio per chi manda a morire a ondate i soldati è genuino, come altrettanto dalla melodia dolente emerge tutta la paura e la sofferenza. Questi versi esprimono con il linguaggio della tradizione orale e poolare, a partire dall’esperienza concreta della guerra, la posizione politica che a mio avviso è l’unica possibile di fronte ai conflitti tra stati, e che Jean Jaures pagherà con la vita. Dirigente di primo piano del Partito Socialista Unificato, fondatore de L’Humanité, Jaures si impegnerà contro lo scoppio della Prima Guerra Mondiale promuovendo una mobilitazione transnazionale tra Francia e Germania. Sosteneva il dirigente socialista che gli interessi operai e proletari fossero gli stessi tra i due lati dei confini. Il sogno di uno sciopero generale che fermasse la guerra si infrangerà con il colpo di pistola che uccide Jaures a Parigi, anticipando di pochi giorni la partenza delle truppe per il fronte. A premere il grilletto un giovane nazionalista intervista. A poche ore dall’attacco russo scrivevo nella ricerca di una strada per mobilitarsi: “Se c'è una lezione che la storia del movimento operaio ci ha lasciato in dote per il futuro è proprio questa: le guerre le vincono solo i ricchi, noi non ci guadagniamo mai niente. I nostri interessi sono gli stessi degli ucraini e dei russi. Sono gli interessi di oligarchi e governi che divergono”.
2. Però non è così semplice
E fino a qua le certezze. La guerra è un affare dei padroni e a morire è solo la povera gente. Però. Però c’è un elemento che senza ombra di dubbio rende tutto più difficile: questa è una guerra di aggressione. Di più: un conflitto che vede l’occupazione militare di un paese sovrano la cui popolazione sembra molto poco ben disposta nei confronti dell’occupante. Le immagini della popolazione civile che si organizza accanto all’esercito regolare cosa ci raccontano? Quella resistenza in armi va sostenuta? Se sì, come? L’Unione Europea ha stanziato per la prima volta milioni di euro per fornire armamenti a un esercito belligerante, e questo è il tema che agita di più il fronte “pacifista”. Chi sostiene l’invio di armi utilizza un argomento oggettivamente forte: sono gli ucraini che chiedono di essere armati per resistere più a lungo. A loro che opzione diamo? Quella di arrendersi? Se ammettiamo che la resistenza di fronte all’invasione russa è legittima perché non dovremmo sostenerla?
Le risposte di chi contesta l’invio delle armi sono molteplici e sono riassumibili in tre argomenti principali: 1) cambierebbe poco o nulla sul terreno, la supremazia russa è una supremazia aerea e l’idea di imporre una Fly zone rischia di allargare il conflitto a dimensioni incontrollabili; 2) l’invio di armi sposta l’Unione Europea da un’opzione diplomatica a una politica bellicista allontanando la possibilità di risolvere il conflitto; 3) lasciare armamenti sul terreno in una situazione così caotica rischia di creare ulteriori pericoli.
È girata una foto (sembra sia una fake news ma tutto sommato cambierebbe poco) che vede uomini del battaglione Azov – la famigerata unità inquadrata nell’esercito composta da neonazisti e suprematisti che si sono fatti le ossa nella guerra del Donbass, macchiandosi anche di diverse atrocità – allenarsi all’uso di armi anti carro fornite dall’Occidente. C’è chi dice che stiamo armando dei “nazisti”. In realtà stiamo armando un esercito dove c'è una componente ultranazionalista e addirittura neonazista. Ma ci sarebbe da dire in questo momento in armi ci sono anche gruppi di sinistra, anarchici e anti autoritari, come ci raccontano le immagini di uomini in mimetica armati di fucili mitragliatori che espongono bandiere con la ‘a’ cerchiata. Ho visto network legati alla Croce Nera Anarchica inviare aiuti ai propri compagni per armarsi meglio, soprattutto dai paesi dell’Europa del Nord c’è chi sta partendo per raggiungerli. Su un canale Telegram c’è chi ha postato la foto di un volontario inquadrato nelle forze di difesa popolare che sul calcio della propria arma ha un adesivo arcobaleno con su scritto: “Make Kiev Queer Again”.
Disertare la guerra vuol dire non aiutarli? Vuol dire non aiutare il popolo ucraino – perché è chiaro che c’è una dimensione di mobilitazione nazionale e anche nazionalista di fronte all’invasore – a resistere? Il battaglione Azov sembra quasi la giustificazione di chi vuole si condannare la guerra, ma non rinunciare a mettere quasi sullo stesso lo piano le colpe dell’imperialismo occidentale e statunitense rispetto alla scelta russa di scatenare il conflitto.
All’inizio ho detto che l’invio di armi era un errore per riflesso pavloviano, poi mi sono reso conto che per sostenerlo all’interno del dibattito pubblico e all’interno della mia cerca relazionale e sociale, con persone anche in assoluta buona fede, sarebbe stato necessario costruire pezzo dopo pezzo un’argomentazione convincente. E di tutti le ragioni contro l’invio di armi in Ucraina – tolte quelle che hanno come assoluto etico la non violenza che non siamo prendendo in esame – quella più convincente credo sia la 2): l’Europa deve ambire a curare i proprio interessi, che non sono quelli del conflitto, ma di un mondo multipolare improntato alla sicurezza reciproca e alla smilitarizzazione. L’invio di armi a un esercito regolare ha più un valore di minaccia in potenza che effetti reali sul terreno, ed è un atto che va nella direzione opposta.
3. Per molti versi non è come in Iraq
Per settimane, mentre gli Stati Uniti e gli altri stati della coalizione si preparavano ad attaccare l’Iraq, la prima cosa che facevo appena sveglio la mattina prima di andare a scuola era accendere la televisione e vedere se la guerra era iniziata. Quando l’attacco ha preso il via sapevo cosa fare: ogni zona di Roma aveva il suo concentramento per manifestare, gli studenti erano organizzati per scioperare e riversarsi nelle strade. Fu una giornata lunghissima fatta di manifestazioni infinite e altre ne seguirono nei gironi successivi. Nessuno dei manifestanti voleva difendere Saddam Hussein, ma semplicemente manifestare che una guerra d’aggressione avrebbe provocato solo morte e distruzione, innescato una spirale che avrebbe alimentato settarismi religiosi e il fondamentalismo, e che alla fine sarebbe stato chiaro a tutto il mondo che l’unico interesse dell’Occidente era quello di curare i proprio affari nella regione. Il movimento contro la guerra – quella “potenza mondiale” in grado di mobilitare milioni di uomini e donne in ogni fuso orario – non ha fermato il conflitto ma ha visto drammaticamente confermata ogni sua previsione, purtroppo ben oltre ogni più fosca immaginazione come ci mostra il disastro della conflitto in Siria, e l’Iraq ridotto a un mosaico di poteri settari, uno stato retto dalla corruzione e dove la guerra a bassa intensità è la norma.
Non schierarsi né con Bush né con Saddam, non solo con il senno di poi si è dimostrata una posizione sostenibile e giusta eticamente e politicamente (a proposito: che fine hanno fatto falchi e neoconservatori?), ma rendeva immediatamente chiaro chi fosse il nemico contro cui mobilitarsi. Da una parte combattevamo i governi laburisti e di destra che sostenevano il conflitto, tentavamo di inceppare la macchina bellica, e dall'altra sostenevamo la società civile irachena contro la dittatura. D’altronde la sottovalutazione degli elementi ideologici, politici e sociali della realtà irachena, riassumibile in una dottrina che suona come “andiamo là, cacciamo il dittatore ed ecco la democrazia liberale che trionferà mentre le nostre aziende faranno affari portando benessere anche alla popolazione locale”, era evidentemente intrisa di ideologia e rappresentava l’ultimo atto di un odioso neocolonialismo. La fuga dall’Afganistan e il ritorno dei talebani al potere non hanno fatto altro che suggellarlo.
Nel caso del conflitto che si dipana sotto i nostri occhi ci troviamo di fronte a un’aggressione da parte della Russia a un paese a cui è legata a doppio filo per tantissimi motivi storici, sociali, culturali. Putin è arrivato a sostenere con un aggressivo discorso nazionalista che l’Ucraina non esiste, che è Russia. Non si tratta solo di intervenire a tutela della popolazione russofona – elemento già questo gravido di pericoli – ma affermare che l’esistenza dell’Ucraina non ha ragione di essere. Si è presentato come liberatore, per la precisione con l’intento di “denazificare” l’Ucraina. Un nazionalismo esasperato quasi speculare a quello ucraino di estrema destra. E in effetti la guerra come potrebbe non esaltare e rafforzare i neonazisti e i nazionalisti dai due lati del confine?
C’è un grande discutere delle responsabilità del conflitto, soprattutto di come la Russia si sia sentita minacciata dall’allargarsi della Nato verso Est, con l’ingresso dei paesi dell’ex patto di Varsavia nell’Alleanza Atlantica. Posto che la guerra sembra accelerare e radicalizzare il processo, con molti paesi che hanno ora una ragione “vera” per sentirsi minacciati da Mosca, la responsabilità può essere davvero addotta all’Occidente? Putin non aveva altra scelta se non bombarda l’Ucraina possiamo accettare l'idea che sia stato obbligato a farlo? O è il disegno di una Russia imperiale che lo impone? La Russia non ha già perso nel 2014 la sua influenza sull’Ucraina tendando in tutti i modi di aggredire la sovranità del paese, con la secessione di due province e maggioranza russofona e l’annessione manu militari della Crimea?
La verità è che credo che lo slogan “né con la Nato né con la Russia” non sia molto convincente. E dirlo non vuol dire di certo sostenere l’Alleanza Atlantica. La Nato non ha contribuito negli ultimi trent’anni a creare un mondo multipolare, tantomeno relazioni internazionali con al centro la cooperazione e la smilitarizzazione, ma rappresentare la realtà dell’attacco all’Ucraina come la necessaria e ineluttabile conseguenza della politica Nato è un automatismo insostenibile. Ma soprattutto la Nato al momento (e per fortuna) non è in guerra. Le cose accadute negli ultimi trent'anni sono complesse, difficile racchiuderle in uno slogan. Ad esempio quasi nessuno ricorda che l’Ucraina nel 1994 con il cosiddetto Trattato di Budapest consegnò il suo arsenale nucleare ereditato dall’Urss alla Russia per farlo distruggere. L’accordo – sottoscritto da Russia, Usa e Gb – prevedeva tra le altre cose di "rispettare l'indipendenza e la sovranità ucraina entro i suoi confini”, “astenersi da qualsiasi minaccia o uso della forza contro l’Ucraina”, “astenersi dall'utilizzare la pressione economica sull'Ucraina per influenzare la sua politica”. Quasi nessuno ricorda poi come la Russia di Putin ha già combattuto un sanguinoso conflitto in Cecenia: dieci anni di guerra contro i separatisti e per mantenere il ferreo controllo del paese. Anche in quel caso c'entrava la Nato? No, ma in quel caso siamo stati a guardare un po' perché la luna di miele delle democrazie con Putin era nel suo punto più alto, un po' perché la Georgia non guarda all'ingresso in Europa e la lotta contro i gruppi d'ispirazione islamista poteva essere inquadrata nella guerra al terrorismo di Washington. Siamo sempre pavidi e distratti verso le guerre dietro l'angolo, della guerra ci accorgiamo solo quando ci piomba in casa.
4. Chi sono i nostri?
Soprattutto cercare le ragioni del conflitto esclusivamente nelle tensioni Russia/Nato mi sembra un modo di argomentare che non tiene conto non solo delle dinamiche interne russe, ma soprattutto utilizza le lenti dell’avversario per leggere la realtà. La geopolitica è una “scienza” che prende esclusivamente in considerazione alcuni fattori – come i rapporti di forza militari e l'accaparramento delle risorse – e che fornisce come risposte esclusivamente azioni ispirate da un cinico realismo politico e dalla volontà/necessità di supremazia e potenza. Ragionare in questi termini esclusivi, come se non potessero i rapporti internazionali essere orientati all’equità e al dialogo, quanto quelli interni alla giustizia sociale, di genere e ambientale, vuol dire immediatamente giocare su un piano che non è e che non dovrebbe essere il nostro.
Cercare poi come avversario privilegiato quello interno all’Occidente capitalista, non solo evidentemente riproduce un tic culturale e politico figlio della Guerra Fredda, ma è credo anche il risultato della difficoltà di individuare un vero referente con cui dialogare e per cui parteggiare dentro la crisi. L’alternativa sembra essere quella tra un astratto pacifismo oppure l’adesione acritica alla necessità di sostenere l’Ucraina e il suo esercito. Forse perché in mancanza di un’Internazionale tertium non datur. Jaures poteva immaginare di disertare il fronte bellicista e di promuovere la pace perché voleva unire la classe operaia francese con quella tedesca in un solo sciopero generale. Ai tempi della guerra in Iraq in effetti con tutti i loro limiti ambiti come i Social Forum hanno comunque rappresentato uno spazio transnazionale di confronto che non faceva finire ogni mobilitazione nell’angusto piano nazionale. Rendeva possibile immaginare una piattaforma di mobilitazione non solo europea ma mondiale. Si conta che il 15 febbraio del 2003 centodieci milioni di persone sono scese in piazza contro la guerra.
Negli ultimi anni (e non mi sembra una tendenza solo italiana) gli spazi di confronto internazionale e i momenti di mobilitazione transnazionali si sono drammaticamente ridotti. Avremmo bisogno di ascoltare e parlare con attivisti ucraini e russi, avendo costruito con loro un punto di vista condiviso lungo questi anni. Così come dovremmo farlo con le forze dall’altra parte del Mediterraneo e non solo. È uno sforzo necessario e non più rimandabile, farlo sotto le bombe e di fronte a una feroce repressione di Stato di ogni opposizione lo rende al momento solo più difficile non meno urgente.
5. Non c’è un movimento pacifista, ma si può costruire
È necessario fare anche un’altra amara constatazione: non esiste in questo momento un movimento pacifista in Italia. Sono esistiti singoli momenti di mobilitazione di piazza, a dire la verità neanche con numeri importanti come accaduto in altri paesi europei. Momenti che sembrano rappresentare esclusivamente lo spazio di autorappresentazione e posizionamento delle organizzazioni che li hanno convocati per poter dire “eccoci, siamo per la pace”. E questo vale sia per le grosse centrali sindacali, associative e di partito, quanto per la galassia della sinistra sociale e radicale. Allo stesso tempo il dibattito pubblico appare sempre più militarizzato, e le posizioni “pacifiste” (o meglio: quelle per le quali la pace non è rappresentata da un’opzione bellicista come nel caso del Partito Democratico) vengono marginalizzate ed esplicitamente messe nel mirino. Chi non è per le armi è con Putin, questo è il messaggio.
Abbiamo dovuto sopportare la più atlantista degli esponenti dem, Lia Quartapelle, citare in parlamento Alexander Langer per giustificare l’invio delle armi all’Ucraina. Una circostanza che mi ha fatto così arrabbiare da farmi riprendere in mano per l’ennesima volta “Il viaggiatore leggero” (Adelphi). Perché è impossibile ignorare le condizioni con cui Langer chiedeva un intervento militare nei Balcani. Prima di tutto chiedeva di agire sotto mandato Onu e soprattutto in una situazione in cui la guerra non era solo una guerra tra stati ma anche e soprattutto una guerra civile ed etnica. L’intervento militare nella guerra dei Balcani immaginato da Langer inoltre era pensato in un contesto in cui avrebbe potuto mettere fine prima alle ostilità, non allargandole in modo irresponsabile e senza essere in grado di prevederne le conseguenze, come fa oggi il fronte che sostiene la linea dell’armiamoci e partiamo.
Costruire un movimento pacifista dunque vuol dire soprattutto in questo momento riannodare le fila del dialogo dal basso, e quindi partire verso i confini e verso le città sotto assedio quando possibile guardando prima di tutto alla popolazione civile. Lo propone oggi Luca Casarini di Mediterranea Saving Humans. Era il 2002 quando Casarini, assieme a una delegazione di parlamentari dei Verdi e di Rifondazione e decine di attivisti italiani organizzati da Ya Basta, sfidava le bombe israeliane per portare le batterie del telefono satellitare con cui Arafat assediato potesse continuare a trattare. Parlare, discutere, costruire piattaforme comuni con chi è in guerra ed è contro la guerra. Intanto vediamo già moltissimi, anche spontaneamente, partire per i confini per offrire un passaggio gratis ai profughi. Questa solidarietà va organizzata e tutelata, e come dice Casarini ci vuole il coraggio di ribaltare il piano di quello che è già scritto: "Costruiamola quest’Europa, con un’azione non prevista e non convenzionale". È poi necessario sostenere i dissidenti russi, favorirne l’espatrio e la sopravvivenza. Qualche giorno fa ho visto l’iniziativa di un gruppo anti militarista tedesco che si metteva a disposizione per aiutare i disertori di ogni fronte. Penso che anche questo sia importante: discutere con chi ha scelto di resistere in Ucraina con le armi, ma anche chi ha deciso di rifiutare l’arruolamento e di uccidere.
6. Come disertare la logica bellica
Dall’inizio del conflitto seguo come tanti altri il conflitto su diversi canali Telegram in italiano, inglese e anche in russo. Uno di questi è un canale pro ucraino ed ha poco meno di 150.000 iscritti. Ogni giorno vengono postate le immagini dei bombardamenti e delle azioni di resistenza all’invasione. Sempre di più negli ultimi giorni vengono esposti i corpi dei soldati russi morti, spesso accompagnati da frasi di dileggio che traduco alla bene e meglio con Google Translate. Stamattina ad esempio vi era il corpo dilaniato, praticamente tagliato in due, di un soldato russo in un terreno pieno di neve, ad accompagnarlo il messaggio “Шел брать Киев. Не дошел”, che letteralmente suona come “Sono andato a prendere Kiev. Non è venuto”. Poco dopo la foto del cadavere di un altro ragazzo russo con la faccia coperta di neve. Un soldato ucraino gli urina in faccia sul viso, e i tratti del volto emergono dalla neve sciolta dalla pipì calda, questa volta la didascalia è: “Украинец помог умыться русскому солдату”, “L’ucraino ha aiutato il soldato russo a lavarsi”. Partiamo dall’orrore della guerra e del nazionalismo che dobbiamo battere e rifiutare senza mediazioni, questo vuol dire restare umani, non giustificare questo e non abituarcisi. Perché la guerra è questa cosa , non una partita a scacchi.