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Daniele è stato ucciso dal padre, ma c’è chi ha il coraggio di incolpare la madre

A soli 7 anni Daniele è stato ucciso dal padre, che era agli arresti domiciliari, eppure c’è chi, all’interno del sistema giudiziario, colpevolizza la madre.
A cura di Jennifer Guerra
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«Un dato che può apparire paradossale: è la madre che porta il figlio dal padre, un gesto del tutto incompatibile con qualsiasi allarme che un precedente atteggiamento del padre avrebbe potuto destare». Questo è stato il commento del gip di Varese Giuseppe Battarino nell’ordinanza di convalida dell’arresto di Davide Paitoni, l’uomo che il 1° gennaio ha ucciso con una coltellata alla gola il figlio Daniele di 7 anni nella casa del nonno, dove si trovava agli arresti domiciliari per il tentato omicidio di un collega. Parole dure e colpevolizzanti, che sembrano addossare alla madre Silvia Gaggini la responsabilità di aver lasciato il figlio solo con un uomo pericoloso, quando in realtà era stato lo stesso tribunale a concedere le visite del bambino, su richiesta degli avvocati di Paitoni, nonostante la madre lo avesse già denunciato per maltrattamenti.

La vicenda di Daniele Paitoni segue un copione già scritto in troppi casi di violenza: per vendicarsi nei confronti della moglie, come affermato dallo stesso in una serie di messaggi rivolti al padre, l’uomo uccide il figlio che continua a frequentarlo per ordine di un tribunale. Una prassi che è in contrasto con la Convenzione di Istanbul sulla violenza nei confronti delle donne, che ha valore di legge nel nostro Paese, ma che nonostante questo continua a essere applicata in centinaia di casi. Anche nel caso in cui la separazione avvenga per motivi di violenza, spesso non si mette al primo posto l’incolumità del figlio come si dovrebbe fare, ma il principio di bigenitorialità stabilito dalla legge 54 del 2006, secondo cui «il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori». A tutela di questo principio, esperti esterni (i consulenti tecnici di ufficio) eseguono valutazioni su entrambi i genitori, giudicando quindi anche le madri che hanno denunciato eventuali violenze responsabili della rottura di tale equilibrio. Maltrattante e maltrattata vengono messi sullo stesso piano, con la minaccia di vedersi togliere un figlio che viene usata come un’arma di ricatto.

Questo sistema, che viene chiamato dalle esperte di violenza di genere “violenza istituzionale”, ha già prodotto situazioni molto gravi. Da donne, come Laura Massaro, che si sono viste negare la responsabilità genitoriale con l’accusa di “alienazione parentale”, nonostante la Cassazione ne abbia decretato l’anti scientificità, a casi estremi in cui la frequentazione col padre violento ha prodotto la morte dei figli, come Federico Barakat, 9 anni, ucciso nel 2005 dal padre (che la madre aveva denunciato 17 volte) con 37 coltellate durante una visita vigilata all’Asl di Milano; o Gloria Danho, 2 anni, accoltellata nel 2019 dal padre a cui i servizi sociali avevano portato la bambina per la prima visita dopo la separazione con la madre, che per i maltrattamenti aveva chiesto aiuto a un centro antiviolenza. La tragica morte di Daniele si aggiunge a questo elenco.

Queste storie hanno in comune il fatto che il comportamento della madre, anche a fronte di denunce per violenze, diviene oggetto di scrutinio da parte dei tribunali tanto quanto quello di chi è stato denunciato. Nel caso di Daniele Paitoni la dinamica è ancora più paradossale: le parole del gip sembrano intendere che è assurdo che una madre affidi il proprio figlio a un uomo accusato di tentato omicidio. Ma la valutazione del rischio non deve spettare alla madre, che in questo caso non ha fatto altro che seguire le indicazioni del tribunale che evidentemente ha ritenuto la situazione non pericolosa. Né un’accusa di tentato omicidio, né le denunce presentate per maltrattamenti da parte di Gaggini, per il quale sarebbe stato attivato il Codice rosso, sono bastati.

Il legale di Paitoni difende l’operato del giudice e afferma di non aver mai ricevuto un avviso di garanzia nei confronti del suo assistito: l’uomo era ai domiciliari perché avrebbe potuto inquinare le prove e non per pericolosità sociale. Anna Giorgetti, la gip che aveva firmato l’ordinanza degli arresti domiciliari per il tentato omicidio del collega, ha confermato l’esistenza delle denunce per maltrattamenti, aggiungendo che «si tratta di carichi pendenti che potrebbero risolversi favorevolmente per l’indagato e che, dunque, non consentono di trarre qualsivoglia certezza» in merito alla pericolosità di Paitoni. Un’ennesima minimizzazione della credibilità di Silvia Gaggini, che per come è andata a finire la situazione diventa ancora più grave. Il fatto che Daniele si trovasse nella casa del nonno insieme al padre non è di certo responsabilità sua. Ancora una volta, la donna aveva fatto tutto quello che era in suo potere per tutelare lei e suo figlio.

Finché il comportamento delle donne continuerà a essere messo sullo stesso piano degli uomini che le maltrattano, creando una falsa equivalenza che è in contrasto con tutte le misure che il nostro Paese ha deciso di adottare per combattere la violenza di genere, casi come quello di Daniele Paitoni continueranno a succedere. Se la rivittimizzazione è già inaccettabile quando a farla sono giornali e talk show, è ancora più grave se a proporla è il sistema giudiziario che quelle donne dovrebbe tutelare. Insieme ai loro figli.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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