Da Peppino Impastato alla P2, ecco cosa è successo il 9 maggio
Quando guardo sul calendario la data del 9 maggio mi torna in mente il 1978. Rammento il bambino di sei anni seduto davanti alla televisione con il padre ad ascoltare in rispettoso silenzio le parole del cronista che recitava il “coccodrillo” di Aldo Moro. La foto del corpo curvato e privo di vita, come una preda abbattuta dalla furia del cacciatore, è stata un’immagine che ha accompagnato la mia adolescenza. Di tanto in tanto, passando per Roma, costringevo i miei genitori ad allungarsi fino a piazza Venezia e, superate le Botteghe oscure, sgattaiolare in via Caetani per sostare di fronte alla targa affissa nel luogo in cui fu ritrovato il cadavere dello statista pugliese, all’interno della ormai famosa Renault 4 rossa (come il sangue).
Leggevo la targa e mi sembrava di avere davanti agli occhi quella maledetta foto che aveva rotto di colpo la tranquillità familiare di un giorno di festa (il 9 maggio del 1936 è nato mio padre, un’altra data fatidica del Novecento italiano: la proclamazione dell’Impero d’Etiopia). In quegli anni ignoravo la storia di Peppino Impastato. Poi, crescendo, cominciai a comprendere che lo svolgimento delle vicende nazionali segue il letto di un lungo fiume tortuoso, apparendo e scomparendo tra curve ed anse, per mostrarsi nella sua interezza solo a chi sceglie di inerpicarsi sulle perigliose vette della storia.
Il nome di Impastato era stato cancellato dalla prepotente immagine del prigioniero politico assassinato dal tribunale del popolo. La Repubblica prostrata dal lutto e dalla fine dell’era dei partiti lasciava che quel giovane, dilaniato dalla deflagrazione di una bomba, morisse una seconda volta sotto la coltre dei depistaggi: Peppino era un pericoloso terrorista, pronto a compiere un attentato ferroviario, uno della stessa risma di quelli che avevano assassinato Moro perciò non bisognava ricordarlo. Anni di bugie e omertà dietro cui si celano le trame occulte di deviazioni e collusioni politiche, militari ed economiche.
Ma la storia, a volte, si diverte a metterci di fronte alle coincidenze a trarne le dovute conclusioni. Un altro 9 maggio sulla mia strada, quello del 1984. Giusto trent’anni fa veniva presentata la relazione finale della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla P2, divisa in cinque capitoli per un totale di oltre centottanta pagine. Una mole cartacea in cui si ricostruisce tutta la vicenda della loggia Propaganda Fide e il progetto di “Rinascita democratica”. Si parte dalla storia della massoneria per poi passare ad analizzare la struttura organizzativa, il ruolo degli iscritti, i rapporti con i servizi segreti, i contatti con l’eversione nera, le collusioni della magistratura, i sostegni finanziari e le connivenze politiche. Gelli, Andreotti, Calvi, Sindona, la mafia, il Vaticano, i servizi segreti, i faccendieri, i golpisti e i gruppi editoriali tutti insieme appassionatamente per spartirsi le spoglie dello Stato.
La Loggia P2 era un organismo complesso dedito ad attività di indebita, se non illecita, pressione ed ingerenza sulle istituzioni nazionali e locali ai fini sia di arricchimento personale, sia di incremento di potere dell’organizzazione. Questa ramificata azione di orientamento strumentale degli apparati statali e degli ordinamenti socioeconomici era la ragione principale che spingeva riconosciuti esponenti della vita pubblica italiana ad aderire all’associazione.
Chi vi entrava era consapevole di perturbare l’ordine costituito, portando in dote il patrimonio relazionale accumulato nel settore professionale di competenza, con il carico delle influenze esercitabili. Le finalità della Loggia P2, quindi, erano note a tutti i componenti e rappresentavano un’evoluzione negativa della solidarietà massonica. La figura di Licio Gelli, in questo coacervo di interessi, è centrale poiché è lui che impone il passaggio dalla tradizionale riservatezza elitaria alla impenetrabile segretezza della cospirazione, trasformando il favore di piccolo cabotaggio in un’operazione di interferenza generalizzata nella vita del Paese.
Il piano di “Rinascita democratica”, però, non era conosciuto da tutti ma solo da quelli che avevano accesso al livello più alto dell’organizzazione: come un organismo vivente la testa della Loggia guidava le membra del corpo associativo, sfruttando le funzioni e gli incarichi dei suoi iscritti: il coinvolgimento del direttore dei Servizi segreti era ben diverso da quello di un ufficiale subalterno.
Inoltre le relazioni tra i rappresentati dei diversi settori professionali venivano sempre mediate da Gelli, terminale ultimo di istanze politiche, economiche, militari, sociali e finanziarie. Il venerabile, sulla base di una lunga tradizione massonica, aveva creato una struttura moderna di penetrazione nel “sistema” a fini di condizionamento e controllo. Un modello a «cerchi concentrici» che, perseguendo un obiettivo finale attraverso la mobilitazione di singoli compartimenti stagni diretti da un’unica regia, mutua da Cosa nostra la verticalità piramidale e la regola dell’omertà. La P2 è una specie di controstoria della prima Repubblica, quella mai raccontata ma affascinate al punto da trovare sempre qualcuno pronto a farla rivivere.
Oggi gli atti della commissione sono tutti consultabili on line sulla rete degli archivi che si presenta all'internauta con uno slogan impegnativo: “Per non dimenticare”. Il web è anche questo e questa è la nostra storia.