Da Goldrake a Masha e Orso: la globalizzazione dei cartoni animati
La tematizzazione del digitale terrestre ha aumentato il numero di canali dedicati all’infanzia, ampliando, di riflesso, il mercato dei giocattoli. Ogni cartone animato crea un indotto di vendita, per gadgets, pupazzi e oggetti vari (dalla componentistica ai materiali scolastici, dall’abbigliamento ai prodotti alimentari), così diffuso e capillare (dai negozi alle feste paesane, dai supermercati alle bancarelle ambulanti) da avviluppare i bambini e i loro genitori in un universo immaginario parallelo, in cui si perde il confine tra fiction e realtà, popolato da Peppa Pig, Calimero, Olivia, Shuan the sheep, gli animali della squadra della giungla, Masha e l’orso e chi più ne ha più ne metta.
Tutti hanno un preciso indirizzo educativo: l’amore per mamma e papà, il rispetto per la natura, la cultura, l’amicizia, l’interesse per lo studio, la cura per i più deboli, l’uso equilibrato dei media e della tecnologia, il gioco come fattore di sana formazione e sviluppo della creatività. Insomma sono un condensato di tutti i valori positivi della civiltà occidentale e delle sue conquiste novecentesche.
Un panorama molto differente da quello dei cartoni animati anni Ottanta. I robot combattenti (Goldrake, Mazinga, Jeeg robot, Daitarn 3 e tutti gli altri) erano la trasposizione dei principi di onore, coraggio, potenza e senso del dovere della cultura giapponese. L’impero del Sol levante, sconfitto e mortificato nella seconda guerra mondiale, usciva dal suo isolamento, elaborando il lutto di nazione guerriera castrata, grazie allo sviluppo di un’imponente apparato industriale tecnologicamente avanzato.
La disciplina militare è sostituita dal mito della produzione. La retorica dell’arte della guerra è incorporata nei cartoni animati che, invadendo il nascente mercato delle Tv commerciali, diventano l’emblema del successo economico del Giappone. I cartoons, con i suoi scienziati geniali e gli eroi senza macchia (condottieri di mezzi meccanici ultramoderni), sono l’incarnazione dei samurai che, da guardiani imperiali, mutano in difensori della Terra presa di mira da feroci alieni.
Al di là del fascino fantascientifico, dietro la narrazione c’è un preciso messaggio: gli extraterrestri hanno una tecnologia superiore in grado di distruggere il pianeta, se non ci fosse la resistenza dei robot, concretizzazione delle ricerche giapponesi nel campo dell’automazione, il genere umano sarebbe annientato. I cartoni animati sono l’etichetta commerciale con cui le multinazionali nipponiche lanciano la sfida alla civiltà occidentale ponendosi sul suo stesso piano di valori e di concezione del benessere. Non è un caso che i protagonisti delle storie animate non abbiamo sembianze orientali ma quelle dei popoli anglosassoni. Non si tratta di emulazione ma di camuffamento commerciale per rendere accettabile e non estraneo lo stile di vita marziale, votato al sacrificio e all’efficienza, del popolo giapponese.
Un’etichetta che serve a potenziare l’immagine vincente dell’industria nipponica. Proprio in quegli anni, infatti, multinazionali come Honda, Suzuki, Toyota, Nissan, Mitsubishi, Sony, Pioneer, Fujitsu, Panasonic, Ricoh, Toshiba, Sharp e tante altre mettono in crisi il settore automobilistico e degli elettrodomestici (due pilastri del “Grande balzo” degli anni Sessanta) negli Stati Uniti e in Europa, spingendo, anche per questo, Margareth Thatcher e Ronald Reagan da un lato a ristrutturare l’economia produttiva intorno alle reti informatiche (da cui discenderà l’attuale dominio digitale americano), dall’altro ad una maggiore libertà di fluttuazione dei capitali (di cui si avvantaggeranno i colossi finanziari e assicurativi del Regno Unito).
La ripresa economica degli Stati Uniti coincide con l’avvio di una nuova serie di cartoons con caratteristiche spiccatamente nazionalistiche, I Simpson, che apriranno la stagione del politicamente scorretto (tanto per citarne due: I Griffin e South Park), in cui la competizione liberista assume i contorni della spietata guerra di sopravvivenza.
In Europa, invece, dove gli stati sono impegnati nella realizzazione di un’unione sovranazionale, fondata su comuni valori etici, si produrranno cartoni animati educativi in linea con i principi del mutualismo operaio e della carità cristiana. Nessun personaggio è individuabile per la sua nazionalità, anzi si scelgono come protagonisti gli animali (in maggior parte quelli domestici) al fine di spersonalizzare e desomatizzare il racconto. Non conta chi lo dice, ma cosa si dice e soprattutto come lo si dice. Gli animali antropomorfi, da esseri inferiori, diventano modelli di cittadinanza europea. La maialina, Peppa Pig, che insegna la buona educazione e il pulcino, Calimero, che si mette al servizio della comunità, senza perdere entrambi la gioia dell’infanzia, non rappresentano necessariamente i costumi inglesi e francesi ma sono piuttosto pensati per una diffusione internazionale e prioritariamente europea.
I luoghi in cui vivono non sono identificabili in questa o quella città, solo raramente si fa un accenno ad alcune nazioni estere (le vacanze in Italia e l’amica francese in Peppa Pig), ma con il presupposto di sentirsi sempre e comunque portatori di ideali positivi universali. Un’impostazione narrativa che ha costretto anche la Disney ad adeguare Mickey Mouse alla serial animation europea: da investigatore privato a compagno di giochi per fanciulli con un’arguzia esplorativa coinvolgente, condita dai soliti marchingegni futuristici.
Insomma, non ci sono più alieni da combattere ma amici da accogliere e comprendere anche, anzi soprattutto, quando sbagliano. La violenza, materiale e psicologica, dei cartoni animati anni Ottanta, che contrassegnava i rapporti tra protagonista e antagonisti, anche quando si trattava di favole a sfondo storico o a contenuto sentimentale (Lady Oscar, Remì, Heidi, Candy Candy, ecc.), è soppiantata dalla gentilezza di animi puri incapaci di nutrire odio. Un passaggio dovuto alla maggiore attenzione dei media broadcast al benessere dei minori, tutelati tramite codici di autoregolamentazione.
In questo scenario, però, un cartone si differenzia per la spiccata identità nazionale con richiami espliciti alla retorica della Patria. Si tratta di Masha e Orso prodotto dall’Animaccord. L’ambientazione non è un luogo indefinito ma la taiga Russa. Una foresta isolata raggiungibile solo in treno, la Transiberiana. Non siamo di fronte alla complessità di una società ma in una comunità, in maggioranza formata da animali, che segue le regole della natura e del buon senso. Masha è la protagonista in primo piano con le sue marachelle da bimba irrequieta e irrispettosa.
Ma Orso, che dovrebbe essere la sua spalla, è, in realtà il personaggio principale. Senza la sua pazienza, la sua competenza, la sua attenzione, la sua bontà, il suo ruolo di educatore e il suo costante equilibrio (guarda caso è un acrobata circense a risposo) non ci sarebbe armonia tra i vari personaggi. Infatti, nell’episodio in cui Orso perde il senno, a causa di un botta in testa, il bosco è in pieno subbuglio e tutti si coalizzano per farlo rinsavire perché senza un preciso punto di riferimento, che tiene a bada i lupi, controlla i conigli, difende i più deboli, educa i più piccoli, la comunità rischia di perdersi.
Chi si cela, dunque, dietro le sembianze dell’orso? Ricordate quali erano i simboli delle Olimpiadi di Mosca del 1980 e quelle di Sochi nel 2014? Un orso, appunto. Il grande mammifero del nord rappresenta la Russia nella sua continuità storica. Se l’uno era l’emblema dell’Unione sovietica, l’altro è il simbolo della nazione di Putin. Cambiano i regimi ma resta costante il carattere della nazione. Come l’Orso, la grande madre Russia accoglie tutti nella sua casa: Masha, il coniglio, i lupi, gli scoiattoli, il maiale, il riccio e chiunque abbia bisogno di conforto. Il popolo nelle sue diverse forme non è mai abbandonato a se stesso.
Proprio come la nazione di cui è simbolo ha la tendenza all’isolamento e si presenta con la faccia truce e l’atteggiamento da burbero ma ha il cuore tenero (un inguaribile romanticone che non riesce a dichiararsi con l’Orsa di cui è pazzamente innamorato). L’Orso/Russia ha decine di qualità (cucina, cuce, coltiva, alleva, pesca, ripara, pattina, suona, dipinge, legge e conosce la chimica) e osserva le usanze popolari (il circo, gli scacchi, il calcio e l’hockey). Masha, che non ha genitori e indossa un abito tradizionale, è una specie di figlia adottiva e nella metafora narrativa raffigura la vitalità delle giovani generazioni: i giovani possono essere irritanti e devono essere puniti quando eccedono, ma vanno comunque incoraggiati, offrendo strumenti di crescita collettiva quali l’istruzione e modelli comportamentali corretti (secondo i costumi nazionali).
È lui che accudisce la bimba (ovvero il popolo immaturo) quando ha problemi di salute, quando ha paura, quando deve mangiare, quando ha bisogno di lavarsi e di vestirsi e persino quando vuole divertirsi. La madre Russia non lascia indietro nessuno ma esige rispetto, per questo è grande. Una grandezza racchiusa nella mani di una sola persona con un modello di governo che unisce la storia della Russia zarista a quella stalinista, fino ad arrivare all’odierno regime autocratico di Putin. Tutti girano intorno a Orso e alla sua casa.
Insomma, il cartone è uno strumento di marketing nazionalistico: promuove i valori etici di una nazione che è sempre stata considerata un “animale” potente ma pericoloso. Ai tempi dell’Unione sovietica questa raffigurazione era accettata in contrapposizione all’aquila americana. Oggi, terminata la guerra fredda, l’Orso rimane l’immagine della Russia, ma, a differenza del passato, la potenza di uno Stato non si valuta più soltanto in base agli armamenti posseduti, quanto alla capacità di penetrare il mercato. I protagonisti del cartone animato, e i vari gadgets annessi, hanno sedotto milioni di bambini e, si sa, quando si conquistano i figli si ottiene la benevolenza dei genitori.