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Processo sulla morte di Stefano Cucchi

Cucchi: otto anni di lacrime e fango per chiamare la verità per nome

Chissà se gli avvoltoi che in questi ultimi anni hanno parlato di “caduta accidentale”, “overdose” e “crisi epilettica” non provino in cuor loro un po’ di vergogna. Finalmente nel caso Cucchi si pronuncia la parola che sembrava impronunciabile: omicidio.
A cura di Giulio Cavalli
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Otto anni di insulti, sbeffeggiamenti, fango, mistificazioni, delegittimazioni con l'aggravante di avere sventolato il cadavere di Stefano come metafora dei carabinieri buoni contro i drogati cattivi. Il cadavere di Stefano Cucchi l'hanno cavalcato in molti e, in otto anni, è marcito sotto le frasi irresponsabili e stupide di qualche parlamentare, sotto il corporativismo bugiardo dei carabinieri, sotto le suole dell'omertà di medici codardi e nell'assurda dichiarazione di chi ha provato a convincerci che la morte fosse dovuta a una crisi epilettica.

La notizia dell'accusa da parte della Procura di Roma di omicidio preterintenzionale per i tre carabinieri della stazione Appia (Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco) che hanno trattenuto (secondo i magistrati senza rispettare le regole) porta a galla per la prima volta un omicidio che viene chiamato con il suo nome: omicidio. La prevaricazione delle forze dell'ordine (ne parlò anche l'ex moglie di uno dei tre carabinieri, raccontando della soddisfazione dell'ex marito per avere pestato "nu drugato ‘e merda") è il più alto tradimento della democrazia e il muro di gomma che per troppo a lungo si è creato a difesa dei presunti assassini (come al solito appellandosi all'Arma dei Carabinieri che è ben altro rispetto a queste pratiche) rivela ancora una volta quanto questo Paese sia immaturo.

La sorella, Ilaria, ha combattuto con ostinazione. È riuscita a raccontare come la morte del fratello non sia un caso personale ma una prova di maturità per tutti. Ha ingoiato le polpette avvelenate dei Giovanardi di turno, ha subito la criminalizzazione ostentata e continua del fratello (che aveva in tasca due dosi di cocaina che non basterebbero nemmeno per l'aperitivo a pezzi della classe dirigente di questo Paese) e, soprattutto, ha chiesto giustizia. E ci vuole fegato e cuore per chiedere giustizia (oltre che la verità) in un Paese bravissimo a chiudersi a riccio.

E invece ha avuto ragione. «Voglio dire a tutti che bisogna resistere, resistere, resistere. Ed avere fiducia nella giustizia», ha dichiarato in lacrime dopo la lettura in tribunale delle accuse. Resistere con misura e ostinazione è un gesto civile. Ilaria ne è un grande esempio.

E chissà che gli avvoltoi di questi ultimi anni, per un secondo soltanto, non provino un moto di vergogna.

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