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Processo sulla morte di Stefano Cucchi

Cucchi, la verità coperta

Il pestaggio di Stefano Cucchi c’è stato e nessuna punizione per i suoi assassini potrà riportarlo in vita o almeno concedergli una morte serena invece di quella, disumana e degradante, che gli è toccata. Ma dignità e verità, queste sì, sono un debito che lo Stato ha, verso Stefano.
A cura di Roberta Covelli
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In Sudafrica, con la fine dell'apartheid, si aprì la stagione della Truth and Reconciliation Commission. Contro i crimini legalizzati del regime degli afrikaner, si cercarono verità e riconciliazione: l'una imprescindibile dall'altra. Perché la ferita non si cura senza il racconto, la narrazione del sopruso, la sua divulgazione, il riconoscimento dei ruoli di vittima e di carnefice. Radio e tv diffusero le testimonianze delle violenze dello stato razzista, nelle lingue ufficiali del paese.

Era un percorso necessario, perché l'abuso perpetrato da membri dello Stato fa male. Non tanto perché la violenza sia più precisa o più forte e non solo perché spesso si accompagna a omertà e alla conseguente impunità dei colpevoli. Subire un sopruso da un tutore della legge è pericoloso perché aggiunge, all'abuso, la perdita di fiducia nelle istituzioni. Il rapporto tra individuo e Stato si incrina, si instilla nella vittima l'idea di essere sempre, costantemente, in pericolo: come cittadino sa di avere diritti, ma si rende realisticamente conto di non poterli esercitare in certe situazioni, paradossalmente quelle in cui le tutele dovrebbero essere ancor più intense. E quindi, insieme alla fiducia, viene meno la premessa stessa del vivere collettivo.

È un problema da affrontare, anche in Italia. Perché se penalmente ci si deve attenere alle garanzie per gli imputati, politicamente lo Stato deve assicurare dignità alle vittime del suo arbitrio: serve verità per riconciliare i cittadini alle istituzioni.

Il pestaggio di Stefano Cucchi c'è stato e nessuna punizione per i suoi assassini potrà riportarlo in vita o almeno concedergli una morte serena invece di quella, disumana e degradante, che gli è toccata. Ma dignità e verità, queste sì, sono un debito che lo Stato ha, verso Stefano, verso Federico Aldrovandi e Aldo Bianzino, verso tutti coloro che avevano diritti e hanno trovato abusi. Verso di loro e verso di noi, vivi, cittadini di uno Stato che non ha voluto proteggere loro e che dunque non è in grado di tutelare noi.

Non vale negare, minimizzare, bollare gli uccisi come problematici, vittime di una vita dissoluta, gente che se l'è cercata, che se si fosse fermata al posto di blocco, se non avesse avuto addosso quella dose, se non avesse risposto, se non avesse alzato quell'estintore, se non fosse andata allo stadio, se non si fosse trovata al posto sbagliato al momento sbagliato. Senza scuse: “verità grido il tuo nome, per quello che non doveva succedere, per quello che non è ancora successo, perché non accada mai più”.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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