Di solito, quando un fenomeno meteorologico estremo vira in tragedia, si formano due schieramenti opposti: da un lato c’è chi insiste che disastri di questo tipo siano da imputare alle ricadute di una crisi climatica sempre più incisiva, dall’altro invece chi dà la colpa al dissesto idrogeologico e dell’abusivismo edilizio che ha contribuito a rendere il territorio meno resiliente.
Il più delle volte, questi due aspetti della questione finiscono per circoscriversi in due opposte tifoserie, il che è un problema, perché così facendo si rischia di perdere ulteriore tempo e rimandare ancora una volta la gestione di quello che è un problema complesso e già emergenziale.
Il punto, infatti, è che entrambe le parti hanno ragione: tra la crisi climatica, il dissesto idrogeologico e l’abusivismo c’è concorso di colpa per quanto accaduto a Casamicciola; bisognerebbe prenderne atto e attuare rapidamente tutte le misure già previste per impedire (o quantomeno arginare) disastri di questo tipo; una su tutte: quel piano nazionale per l’adattamento climatico che prende polvere nei cassetti ministeriali dal 2018. Questa la teoria; la pratica, come vedremo, non è altrettanto semplice.
Cosa c’entra la crisi climatica
Per capire che l’alluvione e la contestuale frana di Ischia non sono casi isolati basta dare un’occhiata ai dati: come ha segnalato Legambiente, con il suo Osservatorio Città Clima, tra il 2010 e il 2022 la Campania è stata colpita da 100 eventi meteorologici estremi, 18 dei quali nel 2022, e 6 nel solo mese di novembre. Si tratta di dati in linea con il netto incremento di fenomeni estremi registrati in Italia negli ultimi anni, e la Campania è da tempo una delle più colpite.
E se da un lato è difficile imputare ogni evento estremo alla crisi climatica, sappiamo con certezza che l’aumento globale delle temperature stia influenzando la frequenza e l’intensità delle precipitazioni.
Il perché è presto spiegato: gli oceani e i mari più caldi aumentano la quantità di acqua che evapora, l’aria più calda trattiene più umidità, e quando un’aria più carica di umidità converge in un sistema temporalesco può produrre precipitazioni più intense. Occorre poi tener conto del fatto che il Mar Mediterraneo è un vero e proprio hotspot dei cambiamenti climatici, basti pensare che il livello delle acque sta aumentando di circa 1,2 millimetri ogni anno e che le temperature in prossimità della costa sono ormai di 3-4 gradi superiori alla media storica.
Attenzione, però: il fatto che si verifichino piogge più intense non significa che sia aumentata la quantità totale di precipitazioni locali. È il tipico copione della crisi climatica: a cambiare non è tanto la quantità di precipitazioni, bensì il pattern; più il pianeta si riscalda più è probabile che le piogge si concentrino in periodi ristretti, magari dopo mesi di siccità.
Tra il 25 e il 26 novembre sull’isola di Ischia sono caduti tra 120 e i 155 mm di pioggia in sei ore; una quantità considerevole, certo, ma non così straordinaria, se si pensa che a settembre nelle Marche ne sono caduti 420 mm. Ma per capire cos’è successo è importante non concentrarsi unicamente su quei due giorni, bensì su un novembre caratterizzato da precipitazioni fuori scala: i 130 millimetri registrati sabato sul Monte Epomeo, infatti, hanno causato una frana anche perché andavano a sommarsi a quelli assorbiti nelle settimane precedenti.
Qualcuno potrebbe obiettare che il monte Epomeo è da sempre a rischio frane, che Ischia è un’isola vulcanica caratterizzata da uno strato superficiale poco consolidato; e avrebbe ragione, il fatto però è che se eventi come questo si rivelano particolarmente letali è anche per colpa dell’eccessiva antropizzazione del territorio e di una cementificazione sregolata e spesso abusiva.
Cosa c’entrano il dissesto idrogeologico e l’abusivismo
Oltre a essere situata in mezzo al Mar Mediterraneo, una delle zone più vulnerabili alla crisi climatica, l’Italia è anche un paese intrinsecamente fragile, basti pensare che il 70% degli eventi franosi in Europa vengono registrati su suolo italiano. Stando ai dati raccolti da ISPRA, oggi nel nostro paese almeno 1,3 milioni di persone vivono in aree a elevato rischio di frane e smottamenti, mentre quasi 7 milioni di persone vivono in aree a rischio alluvionale.
Parliamo di 565.000 edifici esposti a elevato rischio di frane e 623.000 ad elevato rischio alluvione. Per mitigare questo problema negli ultimi vent’anni sono stati avviati 9.961 interventi per un totale di 9,5 miliardi di euro, di cui ne sono però stati ultimati 4.149 (meno della metà, dunque). Ma per quanto utili, questi provvedimenti rischiano di rivelarsi come delle pezze precarie che non vanno a risolvere un problema da troppo tempo sottovalutato o ignorato.
E il problema è che nonostante i geologi negli anni abbiano identificato e classificato il dissesto idrogeologico nelle varie zone, spesso e volentieri si è comunque scelto di edificare e cementificare in zone a rischio, spesso in maniera abusiva. Questo, oltre a esporre un maggior numero di persone a frane letali come quella di sabato, va a ridurre la capacità del terreno di assorbire acqua e dunque di arginare le ricadute di eventi franosi e alluvionali.
In un comunicato apparso in queste ore, Legambiente ha diffuso alcuni dati sulla situazione dell’abusivismo edilizio a Ischia: si parla di 600 case abusive già colpite da ordinanza definitiva di abbattimento; 27.000 pratiche di condono presentate, tra cui 3506 a Casamicciola; 1000 richieste di sanatoria per fabbricati danneggiati dal terremoto del 2017.
In queste ore, mentre ancora si cercano dispersi nel fango che ha inondato l’isola, come spesso accade, anche tra i partiti che in passato hanno avvallato condoni e tentato di bloccare gli abbattimenti, molti politici fanno a gara a chi si scaglia per primo contro l’abusivismo, invocando misure repentine. Ma come abbiamo visto il problema non riguarda solo Casamicciola, e nemmeno solo la Campania, c’è un intero paese che è sempre più esposto al rischio idrogeologico e finché non verrà implementato un progetto di adattamento e prevenzione che sappia tener conto di tutte le variabili in gioco, il problema continuerà a ripresentarsi.
C’è bisogno di un piano di adattamento climatico aggiornato e operativo
Se è vero, come abbiamo visto, che l’Italia è uno dei paesi europei più vulnerabili alle ricadute della crisi climatica, è anche vero che è uno dei pochi paesi (insieme a Polonia e Slovenia) attualmente privo di un piano di adattamento per i cambiamenti climatici. Anche se, a dire il vero, un piano esiste, e addirittura risale a cinque anni fa, quando il governo Gentiloni redasse una bozza di Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), in cui venivano presi in considerazione 18 settori su cui si sarebbe dovuto intervenire per preparare il nostro paese ad affrontare le ricadute della crisi climatica in corso. Quella bozza ora andrebbe approvata (e il governo attuale, a parole, ha promesso di farlo), ma andrebbe prima di tutto aggiornata, e corredata di un piano specifico per le aree costiere, oggi caratterizzate da un’erosione galoppante e minacciate sempre di più dall’aumento del livello dei mari.
È fondamentale che questo passo venga fatto al più presto per ridurre e arginare eventi disastrosi come quello di sabato; e non è solo la mossa più umana e sensata, è anche quella più conveniente. Nel 2020, la Commissione Europea ha stimato che l’aumento di fenomeni di dissesto idrogeologico contestuali al previsto aumento delle temperature, in mancanza di adattamento, porterebbe l’Italia a perdere circa 3 miliardi di euro ogni anno.
Il pacchetto Next Generation EU, peraltro, prevede diversi investimenti per la lotta al dissesto idrogeologico, tra cui 2,49 miliardi di euro per «misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico» e 6 miliardi per «interventi per la resilienza, la valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei Comuni». Sono poi previsti 500 milioni di euro per il “rafforzamento della capacità previsionale degli effetti del cambiamento climatico tramite sistemi avanzati ed integrati di monitoraggio e analisi”.
Di fronte all’aumento di fenomeni metereologici estremi, sistemi di allerta efficace possono fare la differenza, ma è anche necessario che questi sistemi di allarme vengano sfruttati e presi sul serio.
L’ex-sindaco di Casamicciola Peppino Conte, per dire, lo scorso 22 novembre aveva inviato 23 email in posta certificata ad altrettante autorità, tra cui commissario prefettizio e protezione civile, chiedendo che venisse attivato lo stato di crisi per calamità imminente, dopo aver segnalato per settimane mancate bonifiche e pulizie delle vie di ruscellamento. Abbiamo la tendenza ad affrontare le emergenze solo quando è troppo tardi: con la crisi climatica dobbiamo imparare ad affrontarle in anticipo.
Una miopia tipicamente italiana (in un contesto di cecità globale)
Se il PNACC non è ancora stato adottato ci sono diversi motivi, molti di carattere opportunistico e politico, altri invece legati più a una miopia tipicamente italiana: invece di predisporre piani di intervento a lungo termine, si tende infatti a privilegiare il breve termine.
Vale per gli interventi di ricostruzione come per le grandi opere, ed è presto intuibile il tipo di ragionamento che sorregge questo modus operandi: gli interventi di prevenzione sono meno visibili, dunque meno comunicabili, dunque più difficilmente rivendicabili quando si tratta di battersi il petto in campagna elettorale.
Ma c’è anche una questione cognitiva, che riguarda il modo in cui tendiamo a distribuire le priorità; l’abbiamo visto succedere con le varie COP, e ci è risultato palese durante il covid: siamo molto più bravi ad attivarci per minacce che possiamo inquadrare come presenti e immediatamente riconducibili alla nostra persona (o a luogo in cui viviamo), che ad attivarci per impedire che minacce segnalate e circostanziate avvengano nel medio e lungo termine.
Il risultato è che negli ultimi dieci anni l’Italia ha speso in media 1,48 miliardi ogni anno di fondi assegnati per la gestione di emergenze meteoclimatiche, mentre avrebbe potuto ridurre questa spesa di un terzo se solo avesse investito in un piano di adattamento e prevenzione.
“L’Italia non può più continuare a rincorrere le emergenze senza una strategia di prevenzione e politiche innovative territoriali,” scrive Stefano Ciavani, presidente di Legambiente, nel comunicato diramato dall’associazione “perché altrimenti ogni tragedia rischia di essere sempre la penultima.” Ed è per questo che, oltre a rendere completo e operativo il PNACC, urge anche approvare la legge sul consumo di territorio (questa addirittura prende polvere in un cassetto da dieci anni) e mettere un punto fermo a condoni e sanatorie; il che significa anche impedire la ricostruzione degli edifici colpiti se ubicate in zone a rischio, e confrontarsi sull’eventuale delocalizzazione di chi oggi vive in case edificate in zone vulnerabili.
Perché è vero che la Storia italiana è punteggiata da frane e alluvioni, ma è anche vero che con la crisi climatica questi eventi si faranno ogni anno più probabili e ogni anno meno prevedibili. Si tratta di decidere se investire ora nella gestione di un problema già emergenziale, o aspettare la prossima tragedia per sgranare il solito logoro rosario di indignazione e rimpianto.