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Crescere un figlio in comunità: “Ma neanche i bambini ti guariscono dalla droga”

A Bologna si trova una delle poche comunità in Italia per donne, con o senza figli, con problemi di dipendenza: è La Rupe, attiva dal 1993. Inizialmente è stata pensata per progetti di coppia, mentre oggi accoglie anche donne sole, che vengono aiutate nel reinserimento sociale, nella cura della dipendenza e nella crescita genitoriale.
A cura di Beppe Facchini
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Crescere un figlio in una comunità è più complicato che a casa. Da un lato, convivi con persone che non hai scelto e hai delle regole che non decidi tu, ma dall'altro, nonostante le difficoltà, comunque non sei da sola. E questo fa tanto”. Ne è convinta Veronica, una delle ospiti della comunità femminile “La Rupe”, in via San Vittore, a Bologna: si tratta di una delle poche strutture in Italia che accolgono donne, con o senza figli, con problemi di dipendenza. Dall'eroina alla cocaina, fino all'alcol. E Veronica, nome di fantasia, è arrivata nella comunità situata sui colli del capoluogo emiliano esattamente nove mesi fa, quando è nata la sua bambina. “Facevo uso di eroina e cocaina da circa sei anni, ma poi, dopo aver partorito, ho deciso di venire qui per tentare di essere una madre migliore” racconta la giovane mamma a Fanpage.it, che con le sue telecamere è entrata proprio nella struttura bolognese attiva dal 1993, dopo la nascita, nove anni prima, della comunità maschile de La Rupe a Sasso Marconi, non molto distante dalla città delle torri. L'esigenza iniziale era quella di permettere alle donne tossicodipendenti con figli e alle coppie con le stesse problematiche di effettuare percorsi paralleli ma separati, con un graduale riavvicinamento nel corso del tempo. Oggi, invece, le cose sono leggermente cambiate e a La Rupe femminile ci sono mamme e non solo che, in collaborazione con enti locali e Sert, trovano a disposizione spazi adatti e un'equipe di professionisti al loro fianco, per superare le difficoltà che le hanno portate alla dipendenza.

“Spesso e volentieri, per la vita di queste donne, trovarsi ad affrontare una gravidanza diventa il primo momento, per alcune di loro, in cui dicono: oh cavolo, forse mi devo fermare con l'uso di sostanze. Forse ho bisogno di cambiare vita e permettermi di prendermi cura adeguatamente di mio figlio” spiega Andrea Quaglia, educatore della comunità gestita, come quella maschile, dalla cooperativa sociale Open Group. “Attualmente, su 18 posti disponibili, ne sono occupati 16, con undici donne e cinque figli minori, di età compresa fra i cinque e i 12 anni -continua-. Ma non tutte le mamme che arrivano qui sono in percorsi di coppia, anzi: negli ultimi anni arrivano molto più spesso donne sole. Ed è difficile essere una mamma sola, con una storia di dipendenza alle spalle. È molto complesso”. Per quelle che invece svolgono percorsi di coppia, il progetto messo in atto prevede che non ci siano contatti col partner per i primi mesi, così “ci si può centrare su se stessi, visto che spesso si tratta di relazioni a tre con la sostanza”, precisa l'educatore, ricordando anche la possibilità di arrivare a una seconda fase congiunta, in un appartamento a disposizione della comunità. “Attualmente è occupato da una mamma che era qui e dal suo compagno, che si trovava nella comunità maschile, e sta andando bene – sottolinea Quaglia- : lavorano entrambi e siamo molto contenti”.

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A scandire le giornate a La Rupe, oltre alle terapie farmacologiche redatte dai medici del Sert e monitorate dallo staff della comunità, e oltre alle attività e agli incontri sia individuali che di gruppo, ci sono anche dei momenti ludici, importanti pure quelli per ottenere risultati terapeutici sulle ospiti. Lo precisa più volte Andrea, ricordando inoltre i programmi quotidiani ben precisi e strutturati all'interno della comunità, in modo da dimenticarsi completamente di quella vecchia routine fatta solo di "ricerca e consumo della sostanza": sveglia, colazione tutti insieme, pulizie, faccende domestiche, cucina a turno e attività di laboratorio artigianale per conto di alcune aziende del territorio. Poi si organizzano anche partitelle di pallavolo, gite al fiume, al mare o in montagna e tutto ciò che può essere utile a non pensare alle sostanze. I minori in età scolastica, inoltre, vengono iscritti negli istituti pubblici locali, anche grazie ad un canale preferenziale coi servizi sociali. “I percorsi standard durano circa 18 mesi, quelli delle mamme un po' di più, anche due anni e mezzo – spiega ancora Quaglia -. Il nostro è un approccio puramente motivazionale, in cui ogni giorno si decide di rimanere in comunità e mettersi in gioco. Non tutte ci riescono, ovviamente, ma noi ci proviamo sempre. Però i cancelli sono aperti – rimarca- . Non c'è nessuna coercizione, le ragazze sanno che se vogliono, possono mettere fine al percorso in qualsiasi momento”.

Nell'arco del 2020, tracciando a ogni modo un bilancio, la comunità ha accolto complessivamente 35 utenti. Le sostanze primarie d’abuso sono eroina e oppiacei (57,14%), cocaina e crack (20%), alcolici (17,14%) e cannabis (5,71%). Le utenti sono prevalentemente nella fascia di età 31-40 anni (40%), seguite da donne con età superiore ai 40 anni (28,57%) e delle fasce di età 25-30 anni (22,86%) e 20-24 anni (8,57%). Il 65,63% proviene dalla regione Emilia-Romagna. La percentuale di ritenzione, ovvero delle persone che continuano il trattamento nei primi 3 mesi, è di oltre il 71%. Ma un altro aspetto a cui è importante riferirsi, come sottolineano dalla struttura, è la difficoltà emersa negli ultimi anni, in molti casi, di ottenere davvero l'obiettivo prefissato, nonostante l'aiuto messo in campo, di reinserimento sociale e lavorativo delle utenti. Soprattutto di quelle con figli. Un po' perché sole e un po' perché in questi di pandemia le cose girano male in generale nel mondo dell'occupazione femminile, figurarsi per chi viene anche da percorsi di dipendenza.

“Io sto per finire il percorso è ammetto di avere un po' paura, ma devo farcela. Devo riuscirci da sola” dice Francesca, 48 anni. Anche il suo nome è di fantasia, mentre la storia è verissima e racconta di una mamma come tante altre, con due figli ormai maggiorenni, che dopo alcuni momenti difficili si è rifugiata nell'alcol, fino a dover chiedere aiuto. “Me lo porterò dietro per tutta la vita – conclude invece Veronica -. Nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia, ma è andata così. Però per fortuna ho avuto un'altra possibilità. Mia figlia mi dà la forza giorno per giorno per rimanere e lottare, ma se sei un tossicodipendente i figli ti possono aiutare, però non ti guariscono. È brutto da dire, ma è così. Devi comunque avere forza di volontà”.

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