Sono tanti anni che si parla di come contrastare la violenza sulle donne e di genere ma, per la prima volta, il femminicidio di Giulia Cecchettin ha consentito di porsi una domanda diversa dalle solite. Non più rivolta alle istituzioni affinché aumentino le pene o alle donne affinché stiano più attente, ma all’intera società. Cosa possiamo fare e in cosa abbiamo sbagliato noi, come collettività, e nello specifico gli uomini di questa collettività? A porla è stata prima una giovane donna, Elena Cecchettin, da subito derisa e attaccata con accuse senza senso, e poi suo padre, Gino Cecchettin. Non è per niente scontato che un uomo, a maggior ragione in quello che possiamo presumere sia uno dei momenti più dolorosi della sua vita, si faccia carico di questo peso.
Perché è un peso dire agli uomini che hanno un problema, e che questo problema non si può risolvere solo con l’educazione, la prevenzione o la minaccia della punizione. Queste sono le soluzioni di cui si possono e di cui si dovrebbero fare carico le autorità, ma c’è dell’altro, qualcosa che riguarda la vita intima delle persone e il modo in cui si relazionano con gli altri. Gino Cecchettin, nella sua orazione funebre per la figlia, è entrato in questo ambito privato e, come nella migliore tradizione femminista, l’ha portato sul piano politico, parlando di un’assunzione di responsabilità. Un genitore che ha appena perso la figlia per un omicidio non solo non ha citato vendetta, pena o perdono, ma addirittura riconosce che la responsabilità è collettiva, includendo anche se stesso nel discorso.
Molti commentatori in questi giorni hanno attribuito la violenza di genere a una presunta crisi della paternità, sostenendo che la mancanza della sua autorevolezza possa causare comportamenti violenti nei figli maschi. Ma di fronte a un padre come Gino Cecchettin è difficile riuscire a sostenere ancora questa tesi: il problema piuttosto sta nella mancanza di modelli di mascolinità alternativa a quella egemonica, che non incarni solo un ruolo predeterminato ma anche e soprattutto la volontà di cambiare. Nell’omonimo libro, la femminista bell hooks scrive che “il primo atto di violenza che il patriarcato chiede agli uomini di commettere non è la violenza contro le donne, ma piuttosto l’automutilazione psicologica, la loro repressione emotiva”. Non è il padre permissivo e debole a causare la violenza, ma è l’uomo – che sia padre o meno non importa – che non prende atto dei propri sentimenti.
Questa presa di consapevolezza non si limita al perimetro del sé, ma diventa contagiosa nel momento in cui è condivisa: i sentimenti non si possono cambiare o cancellare con la sola forza di volontà, ma è sempre possibile agire sulle conseguenze che questi sentimenti hanno sugli altri. Riconoscendo se stessi e poi i propri simili come portatori di sentimenti, “guardando negli occhi degli altri” per citare il discorso di Cecchettin, si può costruire un’alternativa.
Al funerale di sua figlia, ma anche in tutti i giorni precedenti fatti di dichiarazioni precise e chiare, Gino Cecchettin ha mostrato che è possibile essere uomini vulnerabili, affranti, arrabbiati, ma allo stesso tempo anche lucidi e concreti. Sempre bell hooks nel suo libro La volontà di cambiare scrive che nella società patriarcale gli uomini rinunciano a “essere integri”. Il loro mostrarsi “tutti di un pezzo” si traduce in realtà nel mostrare di volta in volta le parti di sé che si adattano al ruolo che viene loro richiesto di ricoprire. Cecchettin si è mostrato integro, accogliendo in sé il bene e il male di questo momento a ogni livello: personale, umano, politico.
Non solo, ha mostrato anche che è possibile riconoscere i propri limiti. Annunciando di volersi prendere una pausa dal lavoro, il padre di Giulia ha messo un altro tassello nella sua opera di decostruzione, sottraendosi al ruolo di breadwinner, di perfomatività a tutti i costi. Un’altra analisi gettonata della cosiddetta crisi della mascolinità vuole che sia proprio la perdita di prestigio economico dell’uomo, minacciata dalla crescente emancipazione della donna, a causare il sentimento di vendetta che porta alla violenza di genere. Gino Cecchettin, con questa sua scelta, ha in qualche modo mostrato che soffiare sul fuoco della competizione non può essere una soluzione praticabile, proprio perché è in quella competizione che si nasconde la trappola della mascolinità.
L’“impegno civico” che Gino Cecchettin sente di doversi assumere è già stato svolto con questa incredibile presa di coscienza. Non una lezione calata dall’alto, non la predica di un padre, ma le parole di un uomo che ha deciso di non restare a guardare il proprio dolore.