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Cosa sono e come funzionano i centri antiviolenza, dove le donne vittime di abusi possono chiedere aiuto

Le donne che subiscono violenze, sia fisiche che psicologiche, possono rivolgersi non solo alle forze dell’ordine ma anche ai Centri Antiviolenza, presidi femminili e femministi a loro dedicati che offrono ascolto, sostegno e affiancamento. Ecco come funzionano e qual è il loro lavoro.
Intervista a Clarice Carassi
Avvocata e presidente del centro antiviolenza Trama di Terre.
A cura di Davide Falcioni
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Meena Kumari e Vincenza Angrisano. Sono i nomi delle ultime due donne uccise dai rispettivi compagni solo nelle ultime 24 ore. La prima è stata assassinata a colpi di mazza da cricket dal marito a Salsomaggiore Terme: l'uomo ha dapprima colpito la moglie all'interno dell'appartamento in cui abitavano, poi si è accanito su di lei inseguendola in strada. L'intervento di una carabiniera fuori servizio non è riuscito a scongiurare il peggio. Meena in passato avrebbe confidato ad alcuni conoscenti di aver subito violenze. Dopo un intervento nel giugno del 2021, i Carabinieri avevano denunciato il marito per maltrattamenti in famiglia.

Poche ore più tardi Vincenza Angrisano, 42 anni, è stata uccisa dall'ex compagno Luigi Leonetti, 51 anni. I due, in fase di separazione, vivevano ancora insieme in una casa alla periferia di Adria. Stando a quanto accertato l'uomo avrebbe accoltellato la donna al culmine di una lite. Il delitto è avvenuto mentre nell'abitazione erano presenti anche i figli della coppia, di 6 e 11 anni. È stato proprio Leonetti ad allertare i soccorsi, riferendo nella chiamata al 118 di aver ferito gravemente la convivente. Quando il personale sanitario e i Carabinieri sono arrivati sul posto, Vincenza era già morta: giaceva a terra con diverse ferite d'arma da taglio.

Dopo il delitto di Giulia Cecchettin i femminicidi in Italia non si sono arrestati; al contrario, più volte il caso della 22enne veneta è stato usato da alcuni uomini a pretesto per minacciare ex fidanzate e mogli. "Se non torni con me fai la fine di quella Giulia di cui parlano in tv" ha detto, sempre ieri, un 64enne siciliano del Siracusano rivolgendosi alla ex compagna.

Ma in che modo le donne possono chiedere aiuto? Oltre a denunciare, le vittime di abusi possono rivolgersi ai centri antiviolenza (CAV) attivi su tutto il territorio italiano, luoghi che offrono ascolto, sostegno e affiancamento. Fanpage.it ha interpellato Clarice Carassi, presidente del CAV Trama di Terre di Imola.

Clarice Carassi
Clarice Carassi

Innanzitutto: cos’è un centro antiviolenza?

I Centri Antiviolenza (CAV) sono presidi femminili e femministi per l’accoglienza alle donne vittime di violenza di genere. Sono spazi che offrono alla donna ascolto, sostegno e affiancamento, mediante la restituzione di una lettura del loro vissuto in termini di individuazione e riconoscimento della violenza e la prospettazione di un percorso, sociale e legale, per l’affrancamento dal contesto o dalla situazione di violenza. Ciò avviene nel pieno rispetto delle scelte, dei tempi e, dunque, della autodeterminazione della donna. I Centri Antiviolenza svolgono anche attività di orientamento al mondo del lavoro e ricerca di un alloggio temporaneo di prima accoglienza o di ospitalità protetta. Tutti i servizi offerti dai Centri sono gratuiti. I Cav sono i luoghi deputati al riconoscimento e al contrasto della vittimizzazione secondaria.

Una donna che ha subito violenze decide di rivolgersi a un Centro Antiviolenza. Cosa succede da quel momento in poi? Chi la accoglie e quali sono le prime azioni che vengono intraprese?

La donna che subisce una qualsiasi forma di violenza, fisica, psicologica, economica o sessuale da parte del partner, marito, compagno o altro familiare e decide di rivolgersi ai Centri Antiviolenza viene accolta da un’equipe femminile. Alla donna sono sempre garantiti privacy e anonimato. Il primo passo è un colloquio conoscitivo (anche telefonico) da parte di operatrici esperte, adeguatamente formate sul tema della violenza di genere e assistita. Se la donna decide di farsi aiutare nel percorso di uscita dalla violenza, verrà presa in carico dal Centro tramite consulenze con legali e/o psicologhe e colloqui a cadenza periodica e di durata variabile, finalizzati a raggiungere gli obiettivi stabiliti con la donna stessa.

Quali sono le figure professionali presenti all’interno di un CAV? Ci sono psicologhe, avvocate, mediatrici culturali? E la loro presenza è quotidiana, o saltuaria?

Le equipe multidisciplinari femminili dei Centri sono formate da operatrici di accoglienza e dalle figure professionali da lei citate. Negli orari d’apertura o tramite telefono, i Centri garantiscono sempre la presenza delle operatrici di accoglienza. I colloqui con avvocate o psicologhe sono su appuntamento.

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In che modo queste figure possono aiutare una vittima di violenza?

La metodologia di accoglienza dei Centri, sviluppata nel corso di decenni, riconosciuta a livello internazionale e normativo interno, è basata sull’empowerment della donna e sulla relazione tra donne, una relazione paritaria e non giudicante. La connessione tra la donna che ascolta e quella che condivide la propria storia è il canale attraverso il quale quest’ultima può compiere un cambiamento, acquisendo una consapevolezza più profonda di se stessa e delle proprie capacità. Ogni azione (denuncia, attivazione dei servizi, ecc.) viene intrapresa solo con il consenso della donna. Si lavora attraverso una modalità che consenta alla donna di parlare di sé, offrendole la possibilità di credere in se stessa, secondo i presupposti della protezione, della riservatezza e del non giudizio da parte delle operatrici.

I Cav lavorano in modo indipendente o sono inseriti in una rete più ampia in modo da riuscire a "intercettare" casi di violenza che altrimenti faticosamente emergerebbero? Penso ad esempio al legame che ci potrebbe essere con le scuole…

I Centri lavorano in rete con i servizi territoriali, tra cui istituzioni locali e sanitarie, servizi sociali, forze dell’ordine. Il lavoro di rete con tutti questi soggetti è fondamentale per programmare interventi e azioni di prevenzione e contrasto della violenza contro le donne. Trama di Terre, l’associazione che presiedo, lavora da anni con le istituzioni a ogni livello anche e soprattutto sulla formazione tramite percorsi per operatori sociosanitari, forze dell’ordine e per tutte quelle specifiche figure professionali che, per la loro funzione, possono entrare in contatto o conoscere situazioni di disagio o di violenza. Tra questi ci sono sicuramente insegnanti ed educatori, con l’obiettivo di supportare questi ultimi nella comprensione di atteggiamenti e condotte, nell’eventuale riscontro di segni e sintomi nelle studentesse e negli studenti che potrebbero palesare segnali di violenza e, di conseguenza, valutare le procedure da adottare.

Chi finanzia i CAV? I fondi sono sufficienti per far fronte alle richieste delle donne che si rivolgono a voi?

Da una parte, i Centri si autofinanziano con donazioni da privati e campagne di raccolta fondi su propria iniziativa, dall’altra ricevono fondi pubblici. In Italia l’Intesa Stato, Regioni e Province Autonome del 2022 ha fissato i requisiti che devono avere i Centri Antiviolenza per essere riconosciuti dalle Regioni e ricevere finanziamenti pubblici. Trama di Terre, ad esempio, essendo tra i Centri riconosciuti dalla Regione Emilia-Romagna e afferente all’associazione nazionale D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), riceve finanziamenti per il funzionamento del Cav e delle Case Rifugio dalla Regione tramite il Piano Strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne; dalla Città metropolitana di Bologna per garantire l’accoglienza di donne vittime di violenza all’interno delle case rifugio. Il Centro Antiviolenza di Trama di Terre si autofinanzia anche attraverso progetti elaborati dalla stessa associazione in adesione a bandi pubblici. I Centri antiviolenza costituiscono il perno della rete territoriale della presa in carico della vittima di violenza. Analogamente le case rifugio, strutture a indirizzo segreto, forniscono alloggio sicuro alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini.

L’attuale governo sta sostenendo l’operato dei centri antiviolenza?

Quando la politica dichiara di volersi occupare del tema della violenza deve poi farlo con un approccio intersezionale, sistemico e strutturale, che riconosca nell’elemento culturale – quello perpetuato e tollerato – la spiegazione della violenza maschile contro le donne e nel suo cambiamento lo scopo e il filo conduttore di tutte le azioni rivolte al contrasto della violenza di genere. Se guardiamo ai fondi stanziati dal 2014 a oggi per il sistema antiviolenza, senza dubbio sono aumentati ma essi sono stati destinati in misura sempre maggiore alla repressione e non alla prevenzione. Una minima parte di queste risorse è stata orientata a campagne di sensibilizzazione, all’educazione nelle scuole o ad attività di empowerment femminile.

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Dopo il "codice rosso" l’attuale governo promette di introdurre norme più severe contro i femminicidi. Credete che l’approccio puramente repressivo al problema sia adeguato? Cosa manca, da parte delle istituzioni?

Quando si parla di contrasto ai femminicidi è necessario addivenire due riflessioni: la prima considera che la risposta giudiziaria efficace è quella in grado di tutelare e proteggere la donna dalla violenza e dal pericolo di reiterazione di quella violenza; quella che si connota di azioni di prevenzione, attraverso il tempestivo riconoscimento della violenza e la valutazione del rischio di rivittimizzazione a cui la donna è esposta. La seconda riflessione considera che accanto alla risposta giudiziaria deve coesistere una efficace risposta culturale, ossia azioni e misure idonee a determinare il cambiamento culturale; perché è proprio nell’elemento (in)culturale – quello perpetuato o comunque tollerato – che si individua la spiegazione della violenza maschile contro le donne. Il sistema è finanziato in modo inadeguato e senza una visione sistemica incentrate su politiche integrate, indispensabile per fornire sostegno alle donne accolte dalle strutture antiviolenza, ma anzitutto per contrastare le disuguaglianze e le discriminazioni di genere e, quindi, prevenire ogni forma di violenza maschile sulle donne. Lo Stato deve dimostrare – attraverso le sue politiche – di avere la capacità di prevenire, proteggere e tutelare le donne che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza.

Una donna che denuncia abusi spesso è costretta a vivere con il responsabile di quella violenza. Quanto conta l’indipendenza economica? E in che modo lo stato potrebbe intervenire in tal senso? 

La questione economica è cruciale per le donne che scelgono di denunciare e proprio la mancanza di indipendenza economica è uno dei fattori che scoraggiano le donne a denunciare. Tra il 2020 e il 2023 sono stati destinati circa 13,8 milioni di euro per il “reddito di libertà” destinato alle donne vittime di violenza, sole o con figli minori, seguite dai Centri antiviolenza. Si tratta di un massimo di 400 euro mensili fino a dodici mensilità. È un primo passo ma non basta: chi riuscirebbe a garantirsi un’autonomia economica o abitativa con questa cifra?

Spesso è difficile denunciare se c'è un minore di mezzo: cosa succede in questi casi? 

Per la definizione di "violenza assistita" attingiamo al Codice Rosso che ci dice consistere nella condotta di chi costringa il minore, suo malgrado, a presenziare quale mero testimone, alle manifestazioni di violenza, fisica o morale. È stata definita anche dall’OMS come una grave forma di maltrattamento; la violenza assistita è circostanza aggravante e comporta l’estensione al minore di 18 anni della qualità di persona offesa dal reato di maltrattamenti. Le donne che si sono rivolte al Centro Antiviolenza di Trama di Terre dal 1° gennaio al 31 ottobre sono state 111. Le donne con figli/e sono 36. I figli che hanno subito violenza diretta e/o assistita sono stati 22. Le Case rifugio, spesso a indirizzo segreto, ospitano le donne ed i loro figli minorenni per un periodo di emergenza.

Sovente le denunce alle forze dell’ordine vengono ignorate; spesso proprio quelle denunce scatenano reazioni violente. Come ve lo spiegate?

Lo ripeto, la violenza degli uomini contro le donne ha una spiegazione culturale e la cultura si cambia anche attraverso la formazione. È necessario che i governi investano in azioni di prevenzione e dunque anche sulla formazione di operatori e forze dell’ordine. Il contrasto alla violenza di genere non può connotarsi della sola repressione, posto che essa è il risultato di una cultura patriarcale di cui è intrisa la nostra società.

C'è bisogno di maggiore formazione degli agenti delle forze dell'ordine e dei medici per il supporto alle vittime di violenza di genere? Si rivolgono a voi molte persone che prima avevano chiesto aiuto in altri luoghi?

È necessario riconoscere e affermare l’indispensabilità della formazione di tutta la rete dei soggetti che intervengono nel contrasto alla violenza di genere, una formazione che restituisca a tutti la capacità di identificare/individuare di riconoscere ogni tipo di violenza di genere: nelle fasi dell’accoglienza e di ascolto della donna; nell’avvio del percorso giudiziario, ai fini dell’assunzione tempestiva di iniziative cautelari, che si fonda sulla corretta valutazione del rischio di recidiva; e nell’ambito dei giudizi a cui accede la donna dopo la denuncia, per evitarne la vittimizzazione secondaria.

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