Esistono sostanzialmente due tipi di negazionisti climatici: quelli che sono al corrente del problema, conoscono i rischi, e per interesse personale o per conto altrui lo negano; e quelli che davvero non ci credono, o sono scettici, o preferiscono non pensarci.
Parlare coi primi è inutile, a volte pure controproducente: sono coscientemente in malafede, sanno che affrontare la crisi climatica ridurrà le loro occasioni di arricchimento, o la loro leva politica, o quelle di chi li stipendia, e disperdono i semi dello scetticismo in modo studiato e senza alcuna remora.
Con i secondi invece si può parlare. Anzi, bisogna parlarci, e la cosa peggiore che possiamo fare è liquidarli come ignoranti. Perché spesso, in realtà, la loro non è tanto ignoranza quanto speranza del tipo peggiore, quella a cui ci si aggrappa quando si decide di non accettare un'evidenza scomoda, quando ci si sente disarmati e impotenti.
Ma occorre farlo con raziocinio, altrimenti c’è il serio rischio di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato. Vale per tutti i negazionisti, ma in particolare modo per quelli climatici.
Non mettersi in cattedra
Per prima cosa è fondamentale rinunciare fin da subito ai toni pedanti: fare sentire una persona con le ginocchia sotto il banco non può che rafforzare le barriere che sono già state erette. Una volta preso atto che il negazionismo è spesso un meccanismo difensivo diventa più facile evitare di rimarcare un ipotetico dislivello con l’interlocutore. Il punto è che conoscere dati ed evidenze sulla crisi climatica non ci rende persone migliori, solo più consapevoli, e nemmeno così tanto, considerando che comunque tutti viviamo (e alimentiamo, in parte) il sistema fossile che ne è responsabile.
Un buon modo per disinnescare in partenza queste reazioni difensive è mostrarsi umili, presentare la nostra posizione come frutto di una ricerca ancora in corso piuttosto che come una verità da acquisire acriticamente. Perché se è vero che sull’origine antropica del riscaldamento globale non ci sono dubbi, è anche vero che ci sono ancora aspetti della questione climatica che non conosciamo, ricadute che non possiamo prevedere con esattezza, implicazioni che ancora ci sfuggono. Piuttosto che mostrarci tetragoni nella nostra posizione, è più utile rivelarsi curiosi, e magari sminare il terreno di discussione chiedendo all’interlocutore di esporci la propria visione delle cose.
È anche fondamentale non porsi come paladini della giustizia climatica, sfoggiando come una medaglia al valore le proprie scelte di vita e di consumo sostenibile; al contrario, è fondamentale ricordare come il problema climatico non sia risolvibile unicamente attraverso le azioni individuali, e come qualunque forma di azione climatica (sia essa economica, politica, comunicativa o finanziaria) che il nostro interlocutore possa decidere autonomamente di adottare sia valida e preziosa per la causa.
Mostrarsi comprensivi
Una volta stabilito che non è nostro compito evangelizzare nessuno, il secondo accorgimento da adottare è prendersi un momento per capire con chi stiamo parlando. Proprio perché la crisi climatica non può essere inculcata come una dottrina, è utile domandarsi chi sia la persona che ci sta opponendo un’argomentazione negazionista o scettica, che spiegazioni abbia da darci in proposito, quale sia il suo background e – se questa persona la conosciamo – cosa possa indurla a sollevare una simile difesa. Convincersi che chiunque non creda alla crisi climatica, o chiunque dubiti della sua urgenza sia necessariamente ignorante o stupido è del tutto controproducente; anche perché molte volte è falso. Esistono tantissime ragioni che possono spingere una persona ad assumere una posizione negazionista: può avere a che fare con un’indole scettica, o con un’educazione religiosa, o anche solo con la propensione del tutto umana a credere che il mondo in cui viviamo non possa cambiare più di tanto, e che nel dubbio sia meglio che non cambi. Non dimentichiamo che quando parliamo di emergenza climatica non stiamo parlando di una delle tante questioni oggetto di negazionismo (la curvatura della terra, l’allunaggio, il Covid), stiamo parlando di una minaccia esistenziale in piena regola, qualcosa che, una volta compresa, richiede un ripensamento totale del modo in cui occupiamo questo pianeta, un cambio di paradigma che non è per nulla facile accettare.
Evitare proiezioni allarmistiche
È anche per questo motivo che i toni allarmistici non funzionano: ribadire come il mondo stia diventando sempre meno vivibile e sempre più iniquo tracciando orizzonti futuri di devastazione rischia di irrigidire ulteriormente le posizioni di chi spesso vuole proprio evitare di pensare a eventualità catastrofiche che non lo toccano nel presente.
È il caso di ricordare che è almeno dagli anni ’80 che parte della comunicazione ambientale utilizza lo spauracchio di un pianeta ridotto a una landa desolata, uno scenario post-apocalittico da cui è stata eliminata ogni traccia di bellezza: è una proiezione pericolosa, oltre che falsa, perché stabilisce una cesura netta con il mondo in cui viviamo che, ancorché flagellato dalla crisi climatica, è tuttora in grado di offrire conforto e bellezza. Spesso i più scettici nei confronti dell’emergenza climatica sono più vittime di una cecità selettiva che di un paraocchi autoimposto, il più delle volte vivono in una condizione di privilegio, non tanto di tipo economico quanto climatico: il posto in cui vivono non è cambiato così tanto rispetto a quello in cui sono cresciuti; o comunque il cambiamento non ha ancora trasformato in modo visibile le loro vite. Per questo è molto più efficace concentrare il discorso su quanto sia difficile inquadrare nel presente un problema così distribuito e sfaccettato, piuttosto che tratteggiare orizzonti (pur realistici) di catastrofe e desolazione.
Spostare il baricentro dai dati alle storie
Eppure ragioni per allarmarci ne abbiamo già oggi, e non è certo ignorandole che si può sensibilizzare qualcuno alla questione climatica. È però fondamentale evitare di subissare l’interlocutore con dati, grafici e previsioni, per evitare di metterci in cattedra, certo, ma soprattutto perché, per quanto possa sembrare paradossale, il cervello umano crede più alle storie che ai dati. Questo accade perché le storie sono parte strutturale del modo in cui interpretiamo e comprendiamo il mondo, sono un sistema di comunicazione che l’evoluzione ha premiato perché consente di trasmettere l'esperienza in modo immersivo ed emotivamente rilevante. Per questo, raccontare una storia di sopravvivenza a un evento estremo, o di adattamento a ricadute attuali della crisi climatica, farà sicuramente breccia più di qualunque grafico a bastone da hockey o di qualunque dato sui danni e le morti che la crisi climatica sta già oggi causando. Concentrarsi sulle storie di persone che stanno affrontando le ricadute climatiche significa fornire all’interlocutore una piattaforma per intuire come la questione vada a incidere sul suo mondo e sulla sua possibilità di viverci in maniera sostenibile, va a fare leva più sulla nostra dimensione empatica che su quella morale. Per molto tempo la questione ambientale ci è stata presentata come una questione etica: bisognava tutelare gli ecosistemi perché era giusto farlo. Ma la realtà è che la questione è molto più pratica di così: dobbiamo tutelare gli ecosistemi per assicurarci che questo pianeta rimanga vivibile. La decarbonizzazione del nostro sistema economico e produttivo non è solo la scelta giusta da fare, è anche quella più conveniente, sotto ogni punto di vista. Trasmettere questa verità è spesso molto più efficace di qualsiasi predica.
Spiegare la complessità della questione
Attenzione, però: il fatto che non si debba mitragliare dati e previsioni a bruciapelo non significa che non si debba parlare della sostanza del problema. Ma anche in questo caso, è utile scegliere l’approccio giusto, e ce ne possono essere diversi, a seconda della situazione. A chi vi facesse notare che in pieno riscaldamento globale in alcuni punti del mondo si sta vivendo l’inverno più freddo di sempre, ad esempio, è il caso di ricordare che clima e meteo sono due cose diverse, che alluvioni e siccità epocali sono parte dello stesso quadro climatico, che la crisi climatica non crea nuovi problema ma esacerba quelli esistenti. Tutto vero, ma affrontare la questione rovesciando questa carriolata di informazioni può risultare disorientante. Più utile è invece partire dalla difficoltà che tutti hanno a inquadrare un problema che è troppo stratificato, interconnesso e distribuito nello spazio e nel tempo per essere inquadrato con un solo sguardo. Spostare l’attenzione sul perché tutti facciamo fatica a “vedere” la crisi climatica, piuttosto che rimarcare il fatto che noi siamo al corrente del problema mentre loro lo negano: è un passo importante per evitare che si creino ulteriori barriere di separazione tra noi e il nostro interlocutore. Un approccio molto efficace l’ha adottato David Attenborough, che nel suo intervento alla COP26 di Glasgow ha scelto di partire da un cambio di prospettiva su ciò che consideriamo normale: “Per gran parte della storia antica dell'umanità, la concentrazione di CO2 è oscillata pesantemente tra 180 e 300, e così anche le temperature globali.” ha detto Attenborough “Era un mondo brutale e imprevedibile. A volte i nostri antenati esistevano solo in numero ridotto, ma poco più di 10.000 anni fa quel numero si è improvvisamente stabilizzato e con esso il clima della Terra. Ci siamo trovati in un periodo insolitamente benigno, con stagioni prevedibili e tempo affidabile. Per la prima volta c’erano le condizioni per cui emergesse una civiltà e non abbiamo perso tempo ad approfittarne. Tutto ciò che abbiamo raggiunto negli ultimi 10.000 anni è stato possibile grazie alla stabilità di questo periodo".
Lasciare tempo e spazio per arrivare a una conclusione propria
Contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, il negazionismo non è una malattia che si può curare con una pillola, perciò è fondamentale mettersi nell’ordine di idee che, se vogliamo provare a scardinare questo tipo di false credenze, bisogna armarsi di pazienza. E ancora una volta: di umiltà. Se l’approccio di Attenborough funziona è perché fornisce strumenti di comprensione piuttosto che inculcare dati e informazioni. Qualunque processo di apprendimento ha bisogno di un tempo di rielaborazione personale delle nozioni acquisite, questo è particolarmente vero quando si parla di crisi climatica: proprio perché l’argomento è complesso e sfaccettato, per essere metabolizzato richiede un cambio di sguardo sulla realtà che può essere lungo, in alcuni casi faticoso. È noto che la stessa Greta Thunberg abbia dichiarato di essere stata a sua volta scettica: “La prima volta che ho sentito parlare di cambiamento climatico ero negazionista: non volevo crederci, non potevo pensare che stesse accadendo davvero. Se davvero era in corso una simile crisi, capace di minacciare la nostra civiltà, pensavo, non ci saremmo dovuti occupare d’altro.”
Occorre ricordare che non è nostro compito evangelizzare nessuno; semmai, quello che possiamo fare è condividere il nostro sguardo e le nostre conoscenze, ma sempre premurandoci di non squalificare preventivamente quelli altrui. Se una persona non si sente spinta in una certa direzione, è più probabile che decida di dirigercisi da sola, soprattutto se avrà trovato autonomamente ragioni per farlo. È anche per questo che fare della crisi climatica una questione etica rischia di essere controproducente: le implicazioni morali del problema ambientale emergeranno inevitabilmente una volta che ci si comincia a informare, a seconda della sua sensibilità di ognuno.
Ricordare che i negazionisti sono vittime, non colpevoli
A inizio pezzo ho individuato due categorie di negazionisti, e a conti fatti solo i membri della prima possono essere trattati come colpevoli: si tratta di persone che conoscono molto bene il tipo di situazione in cui ci troviamo, sanno che tipo di ricadute sta avendo e avrà, ma sanno anche che potranno utilizzare a proprio vantaggio il sistema fossile, quindi spingono per ritardare il più possibile l’azione climatica. Questo tipo di negazionisti, non a caso, utilizzano argomentazioni molto più sfumate e subdole di un autentico scettico: vi diranno che la crisi climatica esiste ma che non è così urgente risolverla, che non è così colpa delle attività umane e che i modelli dei climatologi sono oggetto di dibattito.
Il punto è che la crisi climatica è già un’emergenza, sta già causando decine di migliaia di morti e miliardi di danni ogni anno, inoltre sta pesantemente minacciando ogni aspetto della nostra realtà (economico e geopolitico compresi). L’industria fossile alimenta da decenni il negazionismo climatico, investendo fiori di milioni per diffondere dubbi e falsità riguardo la questione climatica, (per saperne di più consiglio Mercanti di dubbi di Naomi Oreskes e Erik Conway per i tipi di Edizioni Ambiente, e I bugiardi del clima di Stella Levantesi per Laterza), e se il negazionismo e lo scetticismo climatico continuano a resistere nel discorso pubblico è in gran parte colpa loro.
La crisi climatica ha ricadute di tipo economico, sociale, sanitario e psicologico trasversali, ma a subirne le peggiori conseguenze saranno le persone più socialmente ed economicamente vulnerabili, persone che spesso sono costrette a dedicare la maggior parte del loro tempo a capire come pagare l’affitto o le bollette. Trattare queste persone come colpevoli di inazioni climatiche sarebbe scellerato. La realtà è che un negazionista climatico non legato all’industria fossile è vittima di questo sistema tanto quanto chiunque altro. È il caso di ricordarselo quando ci troviamo a decidere contro chi dobbiamo combattere.