Un anno fa l’Italia piangeva la scomparsa di Giulia Cecchettin, uccisa a 22 anni dal suo ex fidanzato Filippo Turetta. Non ci sono stati, nella storia recente, altri femminicidi che hanno avuto un così grande impatto sull’opinione pubblica e che, soprattutto grazie al comportamento dei familiari della vittima, sono andati ben oltre la commozione o il mero interesse per il “caso di cronaca”.
È difficile ricordarlo, a volte, ma i femminicidi non sono mai semplici casi di cronaca: c’è l’impatto devastante su chi rimane, ma c’è anche tutto il portato politico che ogni uccisione di una donna in quanto donna porta con sé. Questo lo sa bene chi si occupa di contrasto alla violenza di genere, ma è un messaggio che non è facile da far capire alla società.
Tendiamo infatti a considerare la violenza un fatto privato, che riguarda due individui: una vittima e un carnefice. A maggior ragione se questi due individui sono stati legati da una relazione affettiva, il rapporto tra causa ed effetto ci sembra ancora più ovvio: lei lo ha lasciato, lui l’ha uccisa. Ma è evidente che c’è qualcosa d’altro in questo rapporto, che ha a che fare non solo con le questioni personali dei due individui, ma col contesto politico e sociale che abitavano.
Cosa porta un ragazzo di 22 anni a pianificare dettagliatamente l’uccisione della propria ex fidanzata? Cosa l’ha fatto sentire legittimato? I giornali cercano risposte facili: la depressione, la malattia mentale, la perdita dei valori, la vendetta. Sono risposte rassicuranti, ma fuori fuoco.
Nel caso di Giulia Cecchettin, il portato politico del femminicidio è riuscito a bucare l’anestetizzazione che ormai circonda il fenomeno della violenza di genere. Non solo perché tante giovani donne, sempre più sensibili e impegnate nel femminismo, si sono identificate in lei e nella sua storia di apparente normalità, ma anche perché è stato uno dei rari casi in cui qualcuno, la sorella Elena e il padre Gino, è riuscito a nominare un responsabile diverso dall’esecutore materiale. La parola “patriarcato”, sebbene usata da ormai più di un secolo in antropologia e da più di cinquant’anni nel femminismo, è piombata addosso agli italiani come un neologismo misterioso, di cui diffidare.
Ma la parola scelta da Elena Cecchettin è precisa, chirurgica, condivisa anche da chi si occupa di contrasto alla violenza di genere, che ne individua la causa proprio nei rapporti di disparità di potere tra uomini e donne. Potere che non è tanto quello istituzionale o economico, ma più il potere di decidere per se stesse, di porre fine a una relazione senza conseguenze, di andare avanti con la propria vita, di laurearsi, di realizzarsi. È questo potere che fa paura agli uomini che uccidono le donne, e il femminicidio di Giulia Cecchettin ne è la dimostrazione.
Un paio di settimane dopo la sua morte, 500mila persone sono scese in piazza con l’organizzazione femminista Non Una Di Meno, nella Giornata internazionale contro la violenza di genere. Chi è stato in quella piazza ha percepito commozione, rabbia, ma anche l’impressione che da quel punto non si poteva più tornare indietro, solo andare avanti.
A un anno di distanza però questo proposito non sembra essersi realizzato davvero. La famiglia Cecchettin ha continuato il suo impegno di divulgazione, ora diventato anche una Fondazione che porta il nome di Giulia. Le istituzioni, dal canto loro, non si sono mosse di un passo: persino la promessa di istituire corsi di educazione alle relazioni fatta in quei giorni in fretta e furia dal ministro dell’Istruzione non si è mai davvero concretizzata.
I fondi contro la violenza continuano a scarseggiare, le misure securtarie, come il braccialetto elettronico, non funzionano e il nuovo protocollo d’intesa Stato-regioni rischia di mettere ancora più in difficoltà i centri antiviolenza.
La società italiana, dopo settimane di grande coinvolgimento emotivo, è tornata al punto di partenza. Almeno 90 donne sono state uccise dal partner o dell’ex dall’11 novembre 2023. I loro nomi, salvo alcuni casi, sono tornati a essere caratteri stampati per qualche giorno sui quotidiani. La parola “patriarcato” ricompare ogni tanto in qualche salotto televisivo, tra brontolii di disapprovazione. Il processo nei confronti di Turetta è cominciato rivelandoci fin troppi dettagli.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha risvegliati da un torpore. Le parole di Elena ci hanno indicato una causa. Quelle di Gino ci hanno invitato ad assumere una responsabilità. Non le abbiamo ancora ascoltate davvero. Anzi, abbiamo lasciato che il compito di riaggiustare questa società ricadesse sulle loro spalle, anziché prendercene cura tutti insieme, e dopo qualche mese siamo tornati a parlare di violenza di genere solo nelle occasioni “comandate”: 8 marzo e 25 novembre.
Ma non è giusto dire che il femminicidio di Giulia Cecchettin non ci ha insegnato niente. Giulia non doveva morire per darci una lezione, ma laurearsi, cominciare la sua carriera da ingegnera, coltivare le sue passioni, vivere. Esercitare quel potere che spaventa gli uomini ma che, in fondo, spaventa tutti noi: il potere di una donna libera.