Coronavirus, viaggio nel lodigiano che adesso ha paura
Ci devi stare nel lodigiano per capirlo. Devi abitare questi luoghi ammantati da milanesità anche se la milanesità non la ritrovi da nessuna parte, tutto pieno di campi e di foschia che a Milano se la sognano, che sarebbe solo periferia se non fosse per questa poca distanza chilometrica che ci separa da Milano e che quando ci torna comoda ci dà la possibilità di dichiararci metropolitani.
Il lodigiano è così, milanese quando serve e solo lodigiano per i palati più fini. E ha vissuto tutta la vita pensando di vivere in un non-luogo che nessuno può indicare con il dito sul mappamondo. Quando successe il disastro della Banca Popolare di Lodi da queste parti si maledì il giorno che si mise Lodi nel nome della banca, come se Giampiero Fiorani non fosse un prodotto di questa terra, qui dove tutto è troppo piccolo e troppo ristretto per considerarsi riconoscibile agli occhi del resto del mondo.
Così ora il Coronavirus ci ribalta un'altra volta alle cronache nazionali. Ed è un lodigiano che esce poco di casa, le strade languono, nei bar ci si sforza con trascinamento a fare battute a cui non ride nessuno, i supermercati sono presi d'assalto anche se in modo compito come se ci fosse una fine del mondo da compiere in fila, belli eleganti, senza sgualcirsi i polsini.
Eppure è lo stesso lodigiano che si proclamava fieramente leghista, quello che aveva tolto con sicumera la mensa ai figli degli stranieri a scuola che avrebbero dovuto dimostrare di non essere evasori fiscali (loro, nel Paese dell'evasione fiscale) e in cui la sindaca di fede salviniana espone con bullismo la propria avversione agli immigrati. Per un gioco del destino nella terra in cui la chiusura è un tratto antropologico prima ancora che politico, qui dove è straniero anche chi solo arriva da Crema e da Piacenza, il virus si è sviluppato in modo endogeno, con un paziente zero ancora da trovare. E con la sensazione che mentre ci si difendeva dagli altri, alla fine il problema ce l'avessimo in casa.
Eppure la paura la senti: la senti nei pochi figli andati a scuola, la senti nello sforzo di evitare buongiorno e buonasera sputati in faccia, la senti nelle parole piallate dei giornali locali, la senti nelle presentazioni saltate questa sera di qualche libro in qualche libreria e la senti negli aperitivi che sono più vuoti e più silenziosi. È una resa che non si vorrebbe dichiarare ma che si legge sottotraccia. Il lodigiano è una lingua, lunga un paio di strade, a tutti capita quasi sempre di percorrerla.
Oggi nei bar c'è meno gente del solito, nei supermercati aperti si nota che le razioni sono doppie o triple. «Mi bastano birre e sigarette per la quarantena» scherza un avventore in città bassa ma si ride a sforzo, non avrebbe voglia di ridere nessuno. verrebbe voglia di prendersela con il governo ma qui è tutto Lega: Lega in città, Lega in Regione e viene difficile immaginare che le responsabilità non siano condivise o che semplicemente stia accadendo l'inevitabile. “Di sicuro siamo lo Stato con più infettati di tutta l'Europa”, accenna una signora. Difficile darle torto. Ma la ricerca delle responsabilità è qualcosa che adesso interessa poco, troppo alto l'allarme e troppo alta la paura. Una cosa è sicura: “Questo non ce l'hanno portato i barconi”, qui quella narrazione non attacca. Ma qualcun altro fa notare che “questi cinesi sono arrivati dappertutto”, e “ci hanno rubato anche i negozi del centro”. Si fa cenno di sì con la testa. Il nemico c'è anche adesso, ancora.
Per ora in città non ci sono ancora casi conclamati. Arriverà anche da noi, dice qualcuno. È da noi solo che non lo sappiamo ancora, ipotizza qualcun altro. Intanto nel lodigiano il Coronavirus è uscito dalla televisione ed è entrato nella vita vera, quella che pensavi che non sarebbe mai stata toccata dalla cronaca con la C maiuscola. E invece è qui, in pericolo, sgualcita da questa storia che ancora una volta ha colpito al petto la provincia che non vorrebbe esistere. E che non sa cosa rispondere.