Responsabilità, resistenza, sacrificio, altruismo. Alzi la mano chi avrebbe mai usato questi vocaboli per descrivere l’Italia e gli italiani, fino a tre settimane fa, a meno che non dovesse chiedere loro il voto alle elezioni. No, fino a tre settimane fa, il cliché diceva altro: eravamo vecchi e stanchi, choosy e bamboccioni, viziati e festaioli, furbi e fannulloni. Eravamo il Paese del familismo amorale, dello statalismo amorale, dell’individualismo amorale. E ancora mafiosi, razzisti, tanto auto-compiaciuti quanto carichi di alibi e capri espiatori sufficienti ad assolverci da ogni peccato per le prossime tre generazioni. Eravamo un popolo orribile, consapevole di esserlo e incapace di ammetterlo, figurarsi a cambiare.
Ecco: forse lo siamo ancora, tutte queste cose. Ma da tre settimane, da quando il Coronavirus ha fatto capolino nei polmoni di un ragazzo di trentotto anni di Castiglione d’Adda, lo siamo un po’ di meno. Sarà stata la più grande emergenza che ci sia mai capitata dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, la sua rapidissima manifestazione nelle nostre vite, l’assenza totale di modelli di riferimento da scimmiottare, ma ci siamo scoperti improvvisamente dotati di valori, dignità e forza d’animo che nemmeno pensavamo di possedere.
Ci siamo scoperti responsabili, prima di tutto. Il Paese più refrattario alle regole che dalla sera alla mattina – al netto di qualche fisiologica eccezione – smette di uscire di casa per evitare di contagiare il prossimo. Che rispetta quarantena e coprifuoco anche in assenza di controlli, o quasi. Che non tiene aperti i negozi di nascosto anche quando li dovrebbe chiudere, ma anzi li chiude anche quando potrebbe tenerli aperte. Che sceglie di fare quel che può, non solo quel che deve.
Ci siamo scoperti resistenti, allo stesso modo. Quasi stoici nell’affrontare un dolore individuale e collettivi che ha pochi eguali nella storia recente. Il pensiero va a duemila famiglie che hanno visto andarsene i propri cari senza nemmeno poterli accudire, senza la possibilità di un saluto finale, a volte senza nemmeno sapere dove fossero ricoverati o come stessero. Una comprensione dell’emergenza, questa, che va oltre ogni legittima sopportazione. E che meriterebbe risposte diverse, consentitecelo, non solo qualche applauso.
Ci siamo scoperti capaci di grandi sacrifici. E qui il pensiero va innanzitutto al personale ospedaliero – medici, infermieri, operatori socio sanitari – che stanno lavorando ininterrottamente dal 20 febbraio, in condizioni estreme, con dispositivi di protezione ridotti al minimo e con la consapevolezza di essere esposti al virus più di chiunque altro. Il dato che racconta che il 10% dei contagiati è personale sanitario non rende abbastanza l’idea di questo sacrificio. Soprattutto, se parliamo di giovanissimi neolaureati – dove sono gli sdraiati? – le cui sessioni sono state anticipate proprio perché c’è bisogno di soldati in guerra. O di pensionati che tornano al lavoro senza fiatare – con tanti saluti a Quota 100 – perché “non si può dire di No”.
Ci siamo scoperti altruisti e generosi, e questo forse ce lo immaginavamo. Ma non al punto tale di vedere imprenditori – nel Paese in cui l’impresa è progetto di vita ed eredità famigliare tramandata per generazioni – capaci di abbassare volontariamente la serranda, a costo di veder chiudere per sempre la propria attività, pur di non infettare nessuno. Cinquant’anni di stereotipi sui cumenda e sui padroncini, spazzati via da un’unica, grande lezione collettiva: che la salute pubblica viene prima di qualunque benessere privato.
Magari non durerà. Magari i nostri vizi torneranno a fare capolino anche dentro quest’emergenza. Magari torneremo già da domani a fare i furbi e a piangerci addosso, a prendercela coi cinesi, con gli immigrati, con l’Europa e con l’arbitro, a cercare un colpevole anziché una soluzione, a pensare al nostro tornaconto prima di qualunque altra cosa, a irridere la competenza, a dimenticarci dell’importanza della ricerca scientifica, e della scuola. Magari succederà, e sarà fisiologico così. Anzi, magari sarà il segnale di un’emergenza che volge al termine, la luce in fondo al tunnel.
Lasciateci sperare, tuttavia, che un po’ di questo meglio di noi che siamo riusciti a dare in queste quattro lunghissime settimane possa persistere nelle nostre azioni e nel nostro animo anche quanto tutto sarà finito. Che anche dopo la fine dell’emergenza, il Paese migliore che siamo stati – il Paese della responsabilità collettiva, non quello degli eroi e delle eccellenze – continui a vivere. Che la consapevolezza di essere migliori di come ci raccontano – e ci raccontiamo – sia la traccia dell’Italia che diventeremo. Dovesse succedere, non dovremo temere nemmeno il più duro dei dopoguerra. Dovesse succedere, riuscissimo a farlo succedere, tutto questo dolore non sarà stato vano.