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Covid 19

Cos’è il modello Veneto e perché serve fare più tamponi

Si è parlato molto della possibilità o meno di eseguire test a tappeto sulla popolazione per prevenire la diffusione del coronavirus come fatto dalla Regione Veneto. Ma mentre Zaia rivendica la strategia adottata, sottolineando come si sia effettivamente riusciti a contenere i contagi, in altre Regioni, come in Lombardia, questa non sembra ancora essere un’opzione.
A cura di Annalisa Girardi
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I casi di coronavirus in Italia continuano ad aumentare. E mentre il governo cerca di mettere in campo le giuste misure per rispondere all'emergenza a livello economico e sociale, le autorità mediche e gli esperti si chiedono quale sia la strategia più efficace a livello sanitario per limitare i contagi ed invertire la rotta. In questo dibattito si è parlato molto della possibilità o meno di eseguire un maggior numero di test sulla popolazione per prevenire la diffusione del virus: una tattica adottata ad esempio dalla Regione Veneto, ma che continua ad essere vista con sospetto in altri territori e da diversi studiosi. E che non è invece stata adottata in Lombardia, la Regione con il numero più alto di contagi.

Il governatore del Veneto, Luca Zaia, già una settimana fa aveva annunciato che nella sua Regione si sarebbero eseguiti tamponi in massa alla popolazione: un approccio che riflette quanto portato avanti in uno dei primi focolai italiani, quello di Vo', tenuto sotto controllo dall'ospedale di Padova. "La nostra strategia è quella che si usa in tutte le epidemie che è quella classica di una sorveglianza attiva. Punto. Cosa che non è stata mai fatta finora", ha spiegato Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina Molecolare e professore di Epidemiologia e Virologia presso l’Azienda Ospedaliera dell’Università di Padova. Ma cosa si intende per sorveglianza attiva? "Sorveglianza attiva sul territorio il che significa che se una persona chiama e dice io sto male, invece di lasciarla sola a casa senza assistenza senza niente, noi con la unità mobile della croce rossa andremo lì, faremo il prelievo alla persona, faremo il tampone ai familiari, faremo il tampone agli amici e al vicinato, perché è là intorno che c’è il portatore sano, è là intorno che ci sono altri infetti. Punto".

Il professor Crisanti, che ha gestito il caso Vo', ha sottolineato come nel momento in cui è stato individuato il primo contagiato, sia stato essenziale fare dei test su tutta la popolazione: "Abbiamo trovato che il 3% della popolazione era positiva. Che è una enormità. Una fetta ampia di queste persone era asintomatica. Non solo. Nel secondo screening abbiamo dimostrato che persone che vivevano con persone positive asintomatiche si sono a loro volta infettati". Non testare a livello generale tutta la popolazione, come sta facendo il Veneto, secondo Crisanti è un errore in quanto non si individua il "portatore sano" che diffonde il virus senza rendersene conto. "Temo che in Italia manchi la cultura epidemiologica per affrontare le epidemie", ha sottolineato il professore, mettendo in evidenza la differenza di strategia in Veneto e Lombardia. E le conseguenze di questa differenza.

La differenza tra il modello veneto e quello lombardo

All'ultimo aggiornamento, quello del bollettino della Protezione Civile del 22 marzo 2020, i casi presenti in Lombardia sono 27.206, mentre quelli in Veneto "solo" 5.122: un divario importante, se si considera che i primi focolai, quello di Vo' e di Codogno, sono stati scoperti praticamente negli stessi giorni. Ma secondo Crisanti il problema è che in Lombardia i numeri sarebbero totalmente sbagliati: analizzando il numero di contagi accertati e quello di decessi, infatti, risulta che la mortalità in Veneto è circa al 3% (lo stesso tasso registrato, ad esempio, in Cina, mentre in Lombardia questo arriverebbe addirittura al 12%. "In Lombardia manca il numero dei casi domiciliari. Questa distanza dà l’idea del crollo del Sistema Sanitario Lombardo a livello locale, territoriale. Non è che in Lombardia si muore di più, il fatto è che il numero dei contagiati è molto maggiore ma non sono rilevati. Se si tiene come punto di riferimento il 3% di mortalità si può realisticamente, non solo ipotizzare ma dire che In Lombardia ci sono circa 100.000 non circa 25000 casi, questa è la realtà".

Ma perché ci sarebbero così tanti casi proprio in Lombardia? E perché invece in Veneto ciò non è accaduto? Secondo Crisanti, la risposta è semplice: "Non c'è stato un contenimento iniziale. Non è che il virus che colpisce il Veneto è meno cattivo di quello che colpisce la Lombardia. Il virus è lo stesso. Solo che in Veneto il sistema sanitario locale di base ha tenuto. Sono per lo meno riusciti a fare la tracciatura". Operandosi immediatamente per fare il tampone a tutte le cerchie vicine ai casi rilevati, indipendentemente che si trattasse di soggetti sintomatici o meno, le Ulss territoriali si sono subito attivate: in questo modo, secondo Crisanti, si sarebbe quindi riuscito a contenere la diffusione dell'epidemia.

"In Veneto sono stati fatti 53000 tamponi per 4000 casi. Un tampone ogni 10 casi. In Lombardia dove i casi non è vero che sono 25.000 ma sono molti di più è stato fatto un tampone ogni 4 malati. C’è una differenza di 40 volte. Sono stati travolti. Siccome hanno sbagliato prima, vogliono continuare a sostenere una linea. Non vogliono ammettere l’errore", ha concluso Crisanti.

Tamponi a tappeto: i pro e i contro

Non è solo la Lombardia a non aver adottato la strategia dei tamponi a tappeto: il Veneto per ora (ma la Toscana ha annunciato che farà lo stesso) appare l'unica Regione in cui il governo locale ha dato precise direttive a riguardo. Le obiezioni sono diverse. C'è chi sostiene che gli asintomatici siano meno contagiosi e quindi sia più utile concentrare le forze sui casi con sintomi, chi afferma che il test possa anche dare un risultato falso e quindi non sia uno strumento così affidabile sui cui contare nella strategia di contenimento, e infine chi sottolinea che una persona che risulta negativa oggi potrebbe trasformarsi in positiva domani, annullando così l'utilità del singolo test.

L'organizzazione mondiale della sanità non si è sempre mostrara sicura sulla linea da tenere a riguardo. Inizialmente Walter Ricciardi, dell'Oms, ha criticato la strategia del Veneto, affermando che non fosse "stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica". Se Zaia avesse fin da subito seguito le linee dell'Oms, infatti, secondo Ricciardi avrebbe "fatto i test solo su soggetti sintomatici in presenza di due caratteristiche: il contatto con malati di Covid-19 accertati e la provenienza da zone di focolai", Così facendo, affermava l'esperto a fine febbraio, ha solo diffuso "confusione e allarme sociale".

E anche se ora l'Oms raccomanda di eseguire più test, per molte zone potrebbe essere troppo tardi. Infatti, il sistema sanitario locale non solo è saturo, ma rischia il collasso in alcune aree: non c'è modo per i laboratori già impegnatissimi di sostenere anche uno screening di massa della popolazione. In Lombardia, ad esempio, dove i pazienti devono essere trasferiti in strutture fuori Regione per alleggerire il sistema sanitario che non può supportare i numeri di pazienti che hanno bisogno di cure al momento, è impensabile l'eventualità di caricare ulteriormente il personale sanitario e i reparti interessati.

Lo sottolinea Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), che afferma: "Prima di tutto il tampone riflette una situazione del momento e non si può andare a ripetizione continua su una popolazione di 60 milioni, la capacità di gestire i tamponi da parte dei laboratori non ha un potenziale immenso. In un giorno si riescono ad analizzare 10-20mila tamponi. Lo sforzo che il sistema Paese ha fatto è quello di incrementare i laboratori. E i test rapidi devono ancora essere validati per la loro efficacia".

Ma se per alcune zone del Paese non è più sostenibile un approccio di sorveglianza attiva, con un numero importante di tamponi sulla popolazione, per altre in cui la trasmissione del virus appare ancora contenuta, questo potrebbe aiutare a evitare l'impennata di contagi. Gianni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità, chiarisce: "Per ora le raccomandazioni sono quelle di testare i sintomatici per isolarli, e di testare quanto più possibile i loro contatti. Ovviamente questo è più difficile in aree come la Lombardia, per un fatto numerico. Ma ricordiamo che noi abbiamo oggi molte regioni del centro-sud dove il contagio corre a una velocità diversa, ed è ancora possibile e doveroso fare un contenimento efficace. Penso al Lazio, che bene ha fatto a creare la zona rossa a Fondi: dove i numeri sono ancora ridotti il contenimento fisico, per così dire, è ancora la strategia. Ma soprattutto nelle regioni più in difficoltà, e in prospettiva in tutto il Paese, un sistema di monitoraggio mirato può essere un'opzione".

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