In provincia di Messina una trattoria rimane aperta al pubblico, a Savona in sedici giocano a calcetto, come accaduto ad Anacapri e Vicenza. Ma non siamo solo il Paese del pallone, nella Capitale i carabinieri hanno fermato un ragazzo di 23 anni che sull’autocertificazione attestava di andare a cena dagli amici. Poi cinque persone, da Napoli, sono partite in macchina verso Zocca per vedere la casa di Vasco, e nel frattempo nella stessa città, in via Toledo, due giovani beccati si giustificavano dicendo di essere diretti a casa di un amico per recuperare un joystick, magari della PlayStation proprio come quella che il padre di Pordenone voleva acquistare per i figli perché “almeno sanno cosa fare in questi giorni in casa”. Una forma strana di resistenza a questo periodo difficile, modalità che colpisce in modo altrettanto subdolo e infame quella dell’egoismo e dell’indifferenza oltre il coronavirus.
I numeri sono da capogiro: fra l’11 e il 14 marzo le forze dell’ordine hanno controllato 550.589 persone, denunciando 20mila persone per violazione delle misure restrittive e 493 per dichiarazione falsa a pubblici ufficiali. Lo scenario di una società incapace di sopportare, fare sacrifici, maturare empatia verso se stessa, i propri cari e soprattutto chi più ha bisogno: non solo anziani, ma anche persone con patologie importanti, respiratorie o con deficit del sistema immunitario. Che se già non bastasse il Covid19 ad uccidere per mezzo di polmoniti, ci si mette anche la difficoltosa gestione delle ospedalizzazioni con terapie intensive ormai sature.
A poco sembra importare tutto questo a persone per lo più in salute che non riescono a rinunciare all’aperitivo con gli amici del venerdì sera, al giro per negozi la domenica pomeriggio, alla serata in discoteca il sabato notte. Impazzire per lo stare in casa, disabituati ad una vita fatta di noia e introspezione come lo era una volta, in altri tempi e in altre necessità dove ingegno e fantasia ci venivano in aiuto. Persone che, probabilmente, per loro fortuna non hanno mai toccato la sofferenza vera, che altrimenti eviterebbero di procurarne altra. Eppure le testimonianze non si fermano:
"Uno di quegli egoisti mi è capitato di averlo in casa, è mio padre." Mi racconta in una lettera A. "Mi ha risposto che se fosse stato anziano si sarebbe buttato dalla finestra perché se avesse avuto, ad esempio, l’HIV, sarebbe stata colpa sua, ‘scemo per averlo preso'. E così uguale. Eppure quando i miei nonni sono morti non ha affrontato la cosa in modo così stoico, ha voluto che si provasse a salvarli. Ma oggi avrebbe preso treni senza pensare alle conseguenze, se avesse potuto, e forse avrebbe ucciso qualcun altro.”
E poi ancora:
“Sono un infermiere di terapia intensiva, tocco con mano effetti devastanti. Sono deluso dalle persone, persino quelle a me vicine, ma sto cercando di incoraggiarle a non uscire, a star lontano da chi è ‘debole’ e avrebbe conseguenze terribili. Chiedo di metterci una mano sul cuore e rinunciare a qualche svago per il bene di tutti. Ma le risposte che mi giungono sono spesso le stesse: ‘Sono in salute e un raffreddore o due linee di febbre non mi uccideranno’. Sono egoisti e io sono schifato, neanche nel dramma sappiamo mostrare altruismo ed empatia.”
Ecco, però, c'è anche questa Italia qui. Quella attenta e vigile, che ha compreso l’importanza dello “stare a casa” non solo come tormentone social, ma come forma di resilienza straordinaria che di balcone in balcone sopravvive al virus e all’irresponsabilità, letteralmente. E allora si sparano canzoni dalle finestre, si spengono le luci e accendono candele, ci si improvvisa ballerini o cantanti in dirette streaming, ci si applaude a distanza di palazzi e vicoli per darsi coraggio e sentirsi più vicini, si videochiamano gli amici prima di andare a letto. In ogni città, in un unica ondata di calore in questa Primavera che tarda ad arrivare, ci si addormenta con la speranza che un "NO" oggi valga cento "SÌ" il prima possibile. Mentre un pensiero costante a chi è in prima linea collega tutto:
La mia amica Lavinia Dinu, su Facebook, ha scritto un post meraviglioso:
"Ieri è stato organizzato il ‘flash mob' per cui a mezzogiorno le persone sono uscite sul balcone a fare un applauso ai sanitari. Sono infermiera. Venerdì ho lavorato 17 ore, ieri mattina ho staccato dal turno di notte alle 7:00, ho fatto una camminata di un'oretta per prendere aria e distrarmi un po' (il bello di abitare in montagna è che puoi andare a camminare senza incontrare letteralmente anima viva, soprattutto alle 7 del sabato mattina ), poi sono rientrata in casa, ho fatto colazione e mi sono buttata sul letto. A mezzogiorno mia madre si è affacciata piano alla porta di camera mia, ha accennato un applauso (toccandosi appena i palmi delle mani, senza fare rumore, per non svegliarmi) e poi è tornata di là. Quando il pomeriggio l'ho scoperto ho fatto fatica a trattenere le lacrime. Ecco, io l'amore di un genitore lo immagino esattamente così: incontenibile ma discreto, che ci tiene a farsi sentire senza però disturbare. E grazie ad un piccolo gesto come questo, forse, mi sono sentita fiera del mio lavoro un po' più del solito."