Per capire che l’impresa che i delegati di COP28 si apprestano ad affrontare a partire da oggi, sia diversa dalle grandi sfide che l’umanità ha incontrato sul suo percorso basta dare una scorsa alle sempreverdi citazioni motivazionali che di solito caviamo di tasca facilmente e che ora ci appaiono del tutto insufficienti. Martin Luther King diceva che “dobbiamo accettare una delusione finita, ma non dobbiamo mai perdere la speranza infinita”; Thích Nhất Hạnh diceva che “La speranza è importante perché può rendere il momento presente meno difficile da sopportare.”; Louisa May Alcott diceva invece che “chi crede è forte, chi dubita è debole. Le forti convinzioni precedono le grandi azioni.”
Sono frasi potenti, che però si adattano poco al contesto in cui ci troviamo. Le migliaia di partecipanti che siederanno allo stesso tavolo a Dubai infatti dovranno fare ben più che tener viva la speranza, dovranno archiviare le bussole del proprio interesse singolo per convergere su una direzione collettiva; chi oggi ha maggior potere politico ed economico dovrà condividerlo con chi ha meno contribuito al disastro climatico; le nazioni dipendenti dai combustibili fossili dovranno rinunciare a rincorrere profitti monetari immediati per custodire una ricchezza concreta e irrecuperabile; e dovranno farlo mettendo in dubbio le certezze su cui hanno edificato un impero.
È una sfida tutt’altro che scontata, soprattutto considerando quanto eterogeneo sarà questo tavolo: ci siederanno delegati governativi, attivisti, personaggi di spicco del mondo finanziario e imprenditoriale, delegati delle comunità indigene e, come accade da qualche anno a questa parte, anche un nutrito fronte di lobbysti delle compagnie fossili.
Quello che dovrebbe essere un meeting per decidere le sorti del pianeta, insomma, sarà probabilmente un altro braccio di ferro tra chi sta provando in tutti i modi a costruire un futuro vivibile ed equo, e chi sta sollevando cortine di fumo per impedire di individuare un orizzonte diverso.
È la sfida più grande che abbiamo mai dovuto affrontare, e può essere affrontata soltanto tenendo conto della complessità del quadro di insieme.
Di cosa parliamo quando parliamo di “global stocktake”
Nel 2015, al momento della storica firma dell’Accordo di Parigi, le nazioni partecipanti hanno concordato la necessità di ridurre le emissioni in modo da contenere l'aumento della temperatura globale "ben al di sotto dei 2 gradi C" rispetto ai livelli preindustriali, di adattare le comunità umane in modo che siano resilienti agli impatti del cambiamento climatico, e di riconfigurare i flussi finanziari mondiali per favorire queste prospettive. Oltre a questo le, 195 nazioni firmatarie si sono impegnate ad aggiornare ogni 5 anni i propri impegni in termini di riduzione delle emissioni. Per facilitare questo processo l’ UNFCC ha creato uno strumento, chiamato appunto Global Stocktake (in italiano: Bilancio Globale), per monitorare l’attuazione dell’Accordo e valutare i progressi ottenuti nel raggiungimento degli obiettivi concordati.
Le prime conclusioni di questo bilancio verranno presentate proprio alla COP28, il che significa che in queste settimane le nazioni firmatarie si troveranno messe di fronte a una sorta di pagella del loro impegno climatico. E a giudicare dal rapporto di sintesi pubblicato a settembre, le insufficienze dilagano un po’ ovunque.
Pensionare i combustibili fossili
I dati risultanti dai 1600 documenti del Global Stocktake parlano chiaro: gli impegni presi e le misure implementate finora dai governi e dalle aziende, non sono neanche lontanamente sufficienti a mantenere la curva di riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi di qui al 2100. I progressi ci sono stati, certo: se nel 2010 eravamo lanciati a tutta velocità verso quota 4 gradi e oltre, ora siamo tra i 2,4 e i 2,6. Ma non basta. Accettare di superare la soglia degli 1,5 gradi, o addirittura dei 2, significa di fatto accettare di andare incontro a un mondo molto meno vivibile di quello che abitiamo oggi. Qualcuno dirà che è comunque un miglioramento e, pescando le solite frasi motivazionali, è comunque motivo di speranza. Ma un miglioramento così lontano da quello che necessitiamo, dopo quasi 30 anni di tavoli internazionali, non deve suscitare speranza, bensì rabbia e determinazione.
Lo scorso anno, alla COP27 di Sharm El Sheik, più di 80 paesi hanno cercato di esplicitare nel testo finale la necessità di abbandonare ogni combustibile fossile, invece di promuoverne una “riduzione graduale”, ma è stato un tentativo vano. Il testo dell’ultima COP sottolineava la necessità di ridurre del 43% le emissioni legate ad attività umane entro il 2030, ma evitava accuratamente di sottolineare l’urgenza di abbandonare per sempre carbone, gas e petrolio.
Qualche settimana fa, il2023 Production Gap Reportha rivelato come, nonostante quasi trent’anni di trattative climatiche, l’estrazione di combustibili fossili non stia ancora diminuendo, ma anzi sta continuando ad aumentare, tanto che di qui al 2030 ci si aspetta un incremento del 9%. COP28 dovrebbe essere l’occasione per stabilire, nero su bianco, che l’estrazione e il consumo di carburanti fossili sia un’operazione nociva, da cui è necessario sottrarre ogni forma di finanziamento. Ma considerando che al tavolo di Dubai siederanno anche centinaia di rappresentanti del settore fossile, e che a presiedere la COP28 sarà un petroliere, difficilmente si otterrà un risultato così ambizioso.
Chi ha rotto paga
Uno dei traguardi più importanti raggiunti alla Cop27, è stata l’istituzione di un fondo “loss and damage”, che per per la prima volta stabiliva in modo incontrovertibile la necessità di tamponare i danni e le perdite che una parte del mondo sta già subendo per colpa di emissioni che ha contribuito molto poco a creare. È stato un lungo braccio di ferro, che ha visto contrapporsi da una parte la Cina e i paesi del G77, e dall’altra nazioni come gli Stati Uniti, l’Australia, la Gran Bretagna e i paesi UE. È stato un traguardo importante perché per la prima volta un documento ufficiale includeva un discorso sulle responsabilità storiche a livello di emissioni climalteranti, e dunque il ruolo delle nazioni più ricche nello sviluppo dell’attuale crisi climatica.
Le ricadute del riscaldamento globale stanno già oggi causando ogni anno decine di migliaia di morti e centinaia di miliardi di dollari di danni, e stiamo parlando di perdite aggiuntive, che non farebbero parte del bilancio se il pianeta non si fosse già riscaldato di 1,2 gradi. Il fatto che il denaro necessario per arginare questi danni o per ricostruire le comunità colpite debba essere stanziato da chi ha più responsabilità nell’aumento dei gas serra dovrebbe essere ovvio. Ma come hanno dimostrato le scorse COP, le decisioni in fatto di clima non seguono quasi mai un principio di equità.
Il fondo annunciato a Sharm lo scorso anno, per dire, è di fatto un passo in avanti a metà, considerando che, pur approvando l’istituzione di un fondo di risarcimento climatico, i firmatari hanno rimandato di un anno la roadmap per l’implementazione di questo strumento, e non hanno fissato una cifra minima né alcuna misura vincolante per quelle nazioni che sarebbero tenute a finanziare il fondo. Quello che si sa è che il fondo “loss and damage” verrà gestito, almeno inizialmente, dalla Banca Mondiale, una scelta che non è piaciuta ai paesi emergenti del G77, dato che potrebbe prefigurare la creazione di un sistema di prestito, invece delle donazioni a fondo perduto preventivate.
Questi tentennamenti sono la spia di una mancata presa di coscienza e di responsabilità, da parte di chi a parole sostiene di voler sostenere una transizione ecologica equa.
Un flusso enorme di denaro
Ridurre le emissioni, l’abbiamo detto, è fondamentale per arginare i danni futuri del riscaldamento globale, ma poiché siamo già nel mezzo di una crisi climatica, è fondamentale anche occuparsi delle ricadute attuali e future che non siamo già più nelle condizioni di evitare. L’Accordo di Parigi imponeva alle nazioni più ricche di stanziare 100 miliardi di dollari l’anno per l’adattamento alla crisi climatica (non si è mai superata quota 80). Ma la realtà è che per mettere in sicurezza i 3 miliardi di persone oggi a rischio è necessario investire un’enorme quantità di denaro, che le stime più conservative valutano attorno ai 1000 miliardi di dollari.
Ed è solo una parte del flusso di denaro necessario a favorire la trasformazione trasversale globale di cui abbiamo bisogno.
Sul fronte delle energie rinnovabili, per dire, c’è chi sostiene che Cop28 possa essere il tavolo in cui le nazioni decideranno collettivamente di triplicare la capacità energetica rinnovabile di qui al 2030. Al momento, esiste una coalizione di 60 nazioni, tra cui gli USA e l’UE, che punta a raggiungere questo risultato (e a convincere anche Cina e India a prendere lo stesso impegno). Per ora però, una prospettiva simile appare ancora molto lontana. La prima metà del 2023 ha registrato un incremento del 22% negli investimenti in rinnovabili (poco più di 350 miliardi di dollari), ma per poter raggiungere il traguardo zero emissioni entro il 2050 sarà necessario, nei prossimi 10 anni, investire dai 4000 ai 6000 miliardi di dollari ogni anno in tecnologie rinnovabili; e cioè significativamente meno di quanto i governi mondiali spendono ancora oggi in sussidi al settore fossile (7000 miliardi di dollari nel 2022)
Non è un caso che nei giorni scorsi, i discorsi dei paesi più legati ai fossili si siano concentrati più su investimenti rinnovabili e sistemi di cattura del carbonio che sulla necessità di dire addio alle fonti fossili. Una parte di chi parteciperà ai lavori di COP28 è convinta che si potrà avviare una transizione ecologica mantenendo in vita le strutture fossili odierne. L’obiettivo principale di chi ancora crede nella possibilità di mantenere questo mondo vivibile, sarà dissipare questo miraggio una volta per tutte.
Un mondo da ripensare
Lunedì 27 novembre, a pochi giorni dall’inizio di COP28, la BBC ha rivelato una serie di documenti che mostrerebbero come gli Emirati Arabi Uniti intendessero approfittare della conferenza ONU per stringere accordi commerciali per l’avvio di nuovi progetti estrattivi su giacimenti di gas e petrolio. Una prospettiva che sembra uscita da una puntata dei Simpson (o di Breaking Bad, come ha sottolineato qualcuno), ma che non stupisce poi così tanto, considerando quanto fosse assurdo già di per sé il fatto che un petroliere fosse stato messo a presiedere un tavolo sul clima. Questo ennesimo scandalo, semmai, è indice della mole di lavoro che ancora dobbiamo fare nel trasformare queste conferenze in occasioni di trasformazione reale.
Arginare la crisi climatica non richiede solo una serie di accordi su emissioni e investimenti rinnovabili, richiede anche di ripensare l’agricoltura, che oggi è sia vittima che carnefice dell’emergenza climatica, considerando che un terzo della produzione alimentare è a rischio per via della crisi climatica, e che il comparto agroalimentare è responsabile di quasi un quinto delle emissioni serra totali; richiede di ripensare i trasporti, il modo in cui costruiamo le nostre case e le nostre città; richiede una trasformazione delle politiche migratorie, di quelle sanitarie e sociali; richiede una messa in discussione di un sistema economico e finanziario che privilegia il concetto di crescita a quello di tutela; richiede, insomma, un ripensamento totale del nostro modo di abitare questo pianeta.
La filosofa britannica Iris Murdoch un tempo scrisse: “ci sono stati periodi buoni, e periodi decenti, ma i periodi bui si sono rivelati così cruciali.” Ecco una frase motivazionale che può adattarsi ai nostri tempi. Viviamo in un mondo dove il tavolo per affrontare una minaccia globale è presieduto da uno dei suoi fautori. Forse è il fondo che avevamo bisogno di toccare per spingerci finalmente nella direzione opposta.