"L'accesso all'Università per tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali di provenienza, è un valore al quale non possiamo rinunciare”. Sono le parole di Giuseppe Conte durante la cerimonia d'apertura dell'anno accademico dell'Università di Firenze. Sebbene il Primo Ministro abbia ribadito come l’inclusività dello studio attenga alla qualità stessa della nostra democrazia, collegandosi al principio di uguaglianza in senso sostanziale, sono doverose alcune precisazioni per ritornare drammaticamente con i piedi per terra, soprattutto quando si parla di studenti con disabilità.
Di tutti coloro che, infatti, si iscrivono ad una facoltà in situazioni di handicap, sono circa un quarto quelli che riescono effettivamente a laurearsi. Metto subito le mani avanti: questo rapporto è frutto dell’incrocio di alcune ricerche, ma nessuna di queste è ufficiale, ciò significa che anche l’analisi statistica al riguardo è scarsa se non addirittura assente. Insomma: non sappiamo quanti studenti con disabilità siano effettivamente iscritti all’Università (quindi pochi), ma soprattutto quanti di questi iscritti con disabilità riescano davvero a laurearsi (quindi pochissimi). Non a caso, quando ciò avviene, i media sono soliti parlarne, quasi sempre con un dannoso tono pietistico-compassionevole, facendo passare lo studente in questione come un eroe che ha scalato una montagna altissima, quando in realtà si richiede o si dovrebbe rivendicare soltanto normalità: d’altronde a nessun neolaureato “normodotato” viene dedicato uno spazio sui giornali, no?
Questa difficoltà non avviene perché i ragazzi e le ragazze non hanno le capacità cognitive per arrivare alla fine del percorso di studi, ma semplicemente perché non hanno gli strumenti pratici per laurearsi. Stiamo parlando del più banale trasporto da casa alla facoltà (assenza di servizi di assistenza personale o barriere per prendere i mezzi pubblici), ma anche dei supporti tecnologici come computer, audiolibri o libri in braille, schermi per ipovedenti, banchi mobili e regolabili adatti alle carrozzine… per non parlare di un sostegno allo studio e tutoraggi vari, supporto in biblioteca o per compiere le azioni burocratiche.
Le stesse infrastrutture, poi, non sono quasi mai accessibili: i nostri poli sono spesso edifici storici situati nei pieni centri storici delle città più storiche che ci siano. Le barriere architettoniche sono numerose, e anche quando sono assenti (come nel caso del Polo delle Scienze Sociali di Firenze dove mi sono laureato io) manca comunque un’organizzazione adeguata: segreterie che funzionano solo se ci si reca di persona e non per telefono, lezioni quasi mai in videoconferenza per poter seguire da casa, obblighi di frequenza per tutti, file alla mensa chilometriche o esami orali con attese che non finiscono più (certo, in questo caso basterebbe accordarsi con il docente per avere una "via preferenziale", ma vi garantisco che il senso di colpa dovuto alla sensazione di "privilegio" è tanto, mentre stabilire una regola scritta renderebbe tutto più naturale e dovuto).
Nel mio polo universitario, ad esempio, c’è un solo banco per le carrozzine in ciascun edificio, e in otto anni l’ho sempre trovato libero! Cosa significa questo? Che quando ero presente io, non c’era nessun altro ragazzo o ragazza in carrozzina. E vi garantisco che, soprattutto i primi tre anni, ho frequentato spessissimo…
Insomma, tutto questo per dire che quello che dovrebbe essere un diritto costituzionalmente previsto, ancora oggi fatica ad essere esteso a chi necessita di piccoli accorgimenti o servizi ad hoc per poter essere al pari degli altri. E se è vero che l’istruzione e la cultura sono la base di una società civile aperta, dovremmo tutti chiederci se davvero la “fuga di cervelli” sia il problema maggiore quando si parla di investimenti nella formazione e nei giovani: perché purtroppo, tanti dei nostri cervelli, non hanno nemmeno i mezzi per fuggire e salvarsi da questo sistema fallimentare che li vuole reclusi in casa, senza risorse per costruirsi il futuro desiderato.