“Con una mano forniamo armi all’Ucraina, con l’altra finanziamo la guerra di Putin”
Sull'aumento delle spese militari al 2% del Pil il governo Draghi ha traballato qualche ora, poi è stato trovato un accordo: gli impegni assunti dall'Italia nel 2014 con la Nato verranno onorati e gli investimenti nel capitolo "difesa" cresceranno, ma verranno spalmati su un periodo di tempo di sei anni (2028) anziché due (2024). Nel bel mezzo di una pandemia che ha impoverito milioni di persone, con un sistema sanitario nazionale che ha mostrato tutti i suoi limiti e necessiterebbe di investimenti consistenti e duraturi, l'Italia investirà nei prossimi anni miliardi di euro in armi e sistemi difensivi acquistando caccia, navi da guerra e dotandosi delle più moderne tecnologie belliche. Ma siamo sicuri che siano queste, oggi, le priorità del Paese? Fanpage.it ne ha parlato con Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci!, campagna nata nel 1999 che riunisce 49 organizzazioni e reti della società civile impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica, con un’attenzione particolare – tra l'altro – al tema della pace e del disarmo.
La maggioranza di governo ha infine trovato un compromesso: le spese militari saliranno al 2% del Pil entro il 2028. Cosa ne pensate?
Crediamo si tratti di una scelta sbagliata e pretestuosa che usa la guerra in Ucraina per accelerare un processo – quello della corsa al riarmo – iniziato già da anni, che non porterà sicurezza e stabilità ma solo pericoli per il pianeta. Dopo il 1989 i leader mondiali parlarono di "dividendi di pace" perché si pensava che la dissoluzione del Patto di Varsavia e la creazione di un solo grande blocco di potere avrebbero garantito un lungo periodo di pace. Questa illusione è durata pochi anni; dopo il 1994 le spese in armamenti sono tornate ad aumentare e dai dividendi di pace si è passati a quelli di guerra. Il business delle armi è cresciuto in tutto il mondo e gli investimenti nel 2021 sono aumentati del 2,6% a livello mondiale, cioè di una cifra pari a circa 50 miliardi di dollari. Si consideri che si sta facendo fatica a trovare 5 miliardi per sostenere Covax, il programma internazionale che ha come obiettivo l'accesso equo ai vaccini anti COVID-19.
E l'Italia che scelte ha fatto in questi anni?
Abbiamo fatto la stessa cosa: nonostante oggi tutti si lamentino degli scarsi investimenti in difesa negli ultimi 10 anni la spesa è aumentata del 15% senza differenze tra "colori politici" dei governi che si sono avvicendati. Nel 2021, ad esempio, la spesa militare è stata il 5,4% più alta rispetto al 2020. Secondo le stime dell'osservatorio Milex – basate su dati ufficiali del Ministero della Difesa – lo scorso anno l'Italia ha speso 28 miliardi di euro nel comparto militare; ci sono poi i programmi pluriennali che prevedono un investimento in armi e sistemi d'arma di 13 miliardi di euro per acquistare cacciatorpedinieri, carri armati Leopard, caccia F35, fregate e molto altro. A ciò va aggiunto che l'Italia ha una società produttrice di armi, Leonardo Spa (ex Finmeccanica), il cui maggiore azionista con una quota di circa il 30% è il Ministero dell'economia e delle finanze. Nel mese di guerra in Ucraina i valori azionari di Leonardo sono cresciuti di una quota compresa tra il 15 e il 20%.
Insomma, il commercio delle armi non è mai andato in crisi. A tal proposito, che rapporti abbiamo avuto con la Russia negli ultimi anni?
Oggi si parla di sanzioni alla Russia per l'invasione dell'Ucraina, ma voglio ricordare che tra il 2015 e il 2020 – mentre erano già in vigore sanzioni militari verso Mosca – l'Italia ha incassato oltre 22 milioni di euro dalla vendita a Putin di armi leggere, mitragliatrici e qualche decina di blindati Lince. Tali vendite sono state possibili grazie a un escamotage secondo cui i contratti stipulati prima del 2014 potevano ritenersi ancora validi.
Cosa pensa della decisione di fornire armi alla resistenza ucraina?
Sono contrario. Credo che nessuno – nemmeno la Russia – possa vincere questa guerra sul campo e che gli ultimi conflitti abbiano ampiamente dimostrato il fallimento delle armi come strumento di risoluzione delle controversie. Pensate all'Afghanistan, dove dopo 20 anni oggi governano i talebani, ma pensate anche alle due guerre del Golfo, alla Siria e alla Libia, dove dopo la cacciata di Gheddafi è scoppiata una guerra civile che di fatto è in corso ancora oggi. Nemmeno Putin vincerà la guerra in Ucraina: l'unica soluzione è politica. Inviare armi all'Ucraina è inutile, anche perché nel frattempo il nostro Paese acquista ogni giorno 80 milioni di euro di gas russo, quasi 2,4 miliardi di euro dal 24 febbraio, giorno di inizio dell'invasione. Insomma, l'Italia con una mano aiuta Kiev, con l'altra contribuisce a finanziare la guerra di Putin.
Torniamo al compromesso trovato nella maggioranza. L'aumento delle spese militari al 2% del Pil è stato giustificato con i rischi per il nostro Paese derivanti da una escalation del conflitto in Ucraina; eppure gli investimenti saranno spalmati su un periodo di sei anni. Delle due, una: o siamo alla vigilia di un conflitto su larga scala ed è necessario armarsi subito, o questa emergenza non c'è. Ma allora perché aumentare gli investimenti in difesa?
Non c'è nessuna urgenza. La guerra in Ucraina è diventata un ottimo pretesto per aumentare le spese militari. Non noi pacifisti, ma un Presidente degli Stati Uniti ed ex generale – Dwight David Eisenhower – negli anni '50 parlò esplicitamente dell'esistenza di un "blocco di potere" composto da militari, industriali e lobby che operano per l'aumento della spesa militare, perché le armi sono una merce e rappresentano un business, lecito e illecito. La corsa al riarmo è sicuramente figlia di questa dinamica; inoltre nell'ottica della creazione di un esercito europeo si dovrebbe andare verso una razionalizzazione, e non invece verso un aumento dei costi.
Questo blocco di potere opera anche in Italia?
Certo che sì. Anche nel nostro Paese l’influenza dell’industria bellica è fortissima e si parla sempre troppo poco delle cosiddette porte girevoli: molti personaggi con ruoli di primo piano nella politica o nelle forze armate finiscono per diventare manager di industrie spesso anche militari. Quando ero Parlamentare presentai delle interrogazioni al riguardo: una era su Lapo Pistelli, che diede le dimissioni da Vice Ministro degli Affari Esteri per assumere la carica di Vicepresidente Senior all'interno di Eni Spa allo scopo di tenere rapporti con gli stakeholders in Africa e Medio Oriente, aree in cui si era spesso concentrata la sua attività di Governo. Oltre a Pistelli, ci fu il caso di Marta Dassù, passata dall'essere vice ministra degli Esteri a membro del consiglio di amministrazione di Finmeccanica (oggi Leonardo, ndr), industria che all'epoca operava proprio nel comparto militare. Ma i casi sono molti ed è innegabile una commistione tra politica, forze armate e imprese operanti nel settore.