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Terra dei Fuochi: “Quello di cui non abbiamo bisogno”. Lettera del Comitato “Fiume in piena”

Lo scorso novembre il direttore di Fanpage.it suggeriva di andar via dall’Italia. Noi del comitato “Fiume in piena”, invece, facciamo altro.
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Lo scorso primo novembre è apparso sulle pagine di questo giornale un appello, a firma del direttore, a tutti i giovani campani. Parole accorate che, alla luce degli sviluppi degli ultimi mesi sulle questioni ambientali nella nostra regione, invitavano chi ha ancora qualche speranza di sopravvivenza a fuggire da queste terre per evitare le sofferenze atroci generate dai tumori, patologie che sono la prospettiva attualmente più vicina per chi cammina su queste terre. Come comitato #fiumeinpiena – la notizia è ormai di dominio pubblico – ci siamo fatti promotori di una mobilitazione generale per il 16 novembre che, attraversando le strade della città, denunci a gran voce quello che da vent'anni ci stanno facendo.

Siamo un gruppo di giovani che solo negli ultimi mesi si son trovati, ma quello a cui abbiamo deciso di dar voce non è qualcosa di nato all'ultimo momento: con noi ci sono tutti. Dai comitati territoriali alle parrocchie, dalle associazioni ai medici: tutti gli inascoltati degli ultimi vent'anni finalmente tirano un sospiro di sollievo perché hanno trovato lo spazio mediatico – gliel'hanno dovuto concedere le dichiarazioni di un pentito – in cui dire, spiegare, rivendicare. In cui banalmente piangere i propri morti per mano assassina, nonostante un tumore li abbia portati via.

Era quello di cui avevano bisogno e volevano da vent'anni. Tutti, noi e loro, siamo consapevoli del fatto che un corteo non guarirà i tumori, non contrasterà quelli che stanno per insorgere, non bonificherà le terre e non risolverà nulla. Ma quella data è un simbolo. È il simbolo del fatto che opporsi ad uno stato di cose ingiusto, aberrante, vale qualcosa. È il simbolo del fatto che quei morti di cui ci schiaffano in faccia le foto ad ogni occasione non sono morti invano. È di questo che abbiamo bisogno.

Quella piazza è il punto d'arrivo di un percorso di anni di studio, mobilitazione, rivendicazione. Di mazzate, anche di arresti, per chi certe cose le dice da prima dei telegiornali. È la dimostrazione del fatto che anche se in ritardo, le risposte di massa arrivano. È la dimostrazione del fatto che nessuno ha sprecato il proprio tempo. E le proprie vite. Invece di pensare a salvarsi da solo. È di questo che abbiamo bisogno.

E soprattutto quella piazza è un punto di partenza di un movimento di opposizione forte e consapevole che ha precise in testa non solo parole d'ordine ma pure rivendicazioni, soluzioni, processi. Molto più chiaramente di molte delle istituzioni che non hanno mai prestato alla questione la dovuta attenzione. Molto più di quelle istituzioni che quando non sono state complici, sono state zitte e cieche di fronte al disastro. È di questo che abbiamo bisogno.

Quella piazza è il riscatto, è il megafono per dare voce a chi da mesi fa cortei, presidi, assemblee, e che è a un livello più avanzato dell'opinione pubblica: è il riscatto di chi vuole andare a dire che la propria fine la conosce già, ma che nel frattempo ha disegnato alternative, ha in mente un modello diverso dalla contrapposizione all'attuale piano di gestione dei rifiuti all'opposizione ai trattamenti a caldo, dalla volontà di monitorare le bonifiche a quella di proporre sistemi che vadano dal no food alla fitodepurazione, da una mappatura dei siti contaminati alla tutela di quelli sani. È di questo che abbiamo bisogno, non di chi ci dica che ce ne dovremmo andare. Quello lo sappiamo già, quello step è già superato.

Quella piazza è il simbolo di un paese reale che si oppone ad uno Stato che per vent'anni ha tenuta segreta una terribile verità, che si è arrogato il diritto di tenerci all'oscuro della nostra condanna a morte. Qualcuno dovrà pagare per quello che è successo. Stavolta non li lasceremo vincere.Perché se ce ne andiamo tutti vincono loro: i camorristi, i politici conniventi, i politici camorristi, lo stato silenzioso e assassino, gli imprenditori che si sono arricchiti sulle nostre vite.

Se proprio dobbiamo spiegare a qualcuno cosa implica una chemioterapia, cosa implica perdere organi vitali e non, cosa implica passare mesi ed anni a letto in bilico tra vita e morte in una battaglia che non si sa se verrà mai vinta, spieghiamo pure che i responsabili hanno nomi e cognomi, e se ce ne andiamo invece di stare qua a combattere non solo non pagheranno, ma potranno ricominciare indisturbati, una volta spento il clamore mediatico, a devastare le nostre terre.

Perché se invece di guardare ad oggi proviamo a guardare a quello che succederà domani, e se qualcuno domani vede chemioterapie ed organi asportati allora guardiamo a dopodomani, in quella piazza ci sono quelli che dopodomani vogliono che queste terre possano avere un riscatto. Perché se ce ne andiamo tutti avranno veramente vinto loro, perché nessuno di noi si sogna di lasciare queste terre e darla vinta a chi si è arricchito a costo delle nostre vite. Forse è vero che siamo già condannati ma allora non abbiamo più niente da perdere e possiamo combattere la nostra battaglia. Oppure non siamo ancora condannati, non tutti, e allora ha un senso scendere in campo e fronteggiare il nemico. Ad armi pari stavolta, perché ora che tutti sanno, ora che tutti hanno letto, visto, ascoltato, la risposta o è di massa, o non ha senso che sia.

A meno di due settimane dal 16 novembre, abbiamo bisogno di un sacco di cose: abbiamo bisogno di incontrare molte più persone di quelle che abbiamo incontrato fino ad oggi. Abbiamo bisogno che tutti i comitati territoriali, le associazioni di quartiere, i collettivi studenteschi, i semplici cittadini abbiano la voglia e le energie per costruire il loro pezzo di storia dentro quella mobilitazione. Abbiamo bisogno di soldi perché ci servono striscioni, manifesti, volantini, adesivi. Abbiamo bisogno di mettere a confronto le idee alternative che già esistono e abbiamo bisogno di diffonderle perché non si dica che non si può fare più niente. Ci serve più o meno di tutto, eppure ci sono delle cose di cui non abbiamo bisogno.

Quello di cui non abbiamo bisogno è qualcuno che ci ricordi quello che ormai tutti sappiamo, è che qualcun altro ci elenchi un altro dei motivi per cui ce ne dovremmo andare da questi posti di merda: dalla disoccupazione alla monnezza, dall'ambiente all'assenza di welfare, sono anni che ci dicono che ce ne dobbiamo andare. Noi vogliamo stare qua, e vogliamo che questo posto sia degno di noi, e non vogliamo condurre una battaglia solitaria.

Non abbiamo bisogno di "padri" che dall'alto di non si capisce bene di cosa ci dicano che quello che facciamo è inutile e che sarebbe meglio andarsene. Non abbiamo bisogno di intellettuali che – fuori dalle nostre strade – ci scandiscano i tempi, i modi e i luoghi della lotta. Non abbiamo bisogno di giornalisti che banchettano sull'ultimo scandalo, l'ultimo psicodramma, l'ultima storia strappalacrime: il 16 novembre non è il giorno del lutto e della sofferenza privata e collettiva, è il giorno della rabbia degna di un popolo che si è scocciato di incassare in silenzio. Non abbiamo bisogno di informazione spicciola, di slogan facili ("fujtevenne"), di discorsetti scritti in venti minuti: perché saremo giovani, ma siamo maledettamente esperti, abbiamo idee complesse, abbiamo alternative concrete, passiamo giornate, settimane, mesi, a studiare il ciclo di smaltimento di Francoforte, i meccanismi di fitodepurazione, i modelli di rifiuto-zero, i rapporti di oncologia nazionali e internazionali.

Non abbiamo bisogno di maestri. Abbiamo bisogno di tutti quelli che vogliono restare e resistere, perché un altro modello – qui ed ora – è possibile e necessario. Chi non vuole aiutarci a costruirlo è liberissimo di non farlo, ma almeno lo facesse in silenzio.

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