Come usciremo da questo disastro? Impauriti e distanti, ma forse capiremo meglio il dolore altrui
Come cambierà la comunità dopo la pandemia di Covid-19? Avremo paura ad assembrarci, in futuro? Cosa succederà a chi tossirà per strada? Le dinamiche con cui si dipanerà il post pandemia sono all'attenzione di chi studia da sempre queste dinamiche e di chi lo fa, in particolare, dopo quello che viene definito un evento disastroso. Giovanni Gugg è docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Napoli “Federico II”, membro del LAPCOS (Laboratoire d'Anthropologie et Psychologie Cognitives et Sociales, Université de Nice Sophia Antipolis, Francia), le cui ricerche si focalizzano sull’antropologia del rischio e sull’antropologia del paesaggio, riguardando soprattutto la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, in particolare quando si tratta di territori a rischio. Ne usciremo sicuramente cambiati da questo disastro, in che modo lo scopriremo, ma si può già provare, guardando al passato, quali dinamiche potranno ripresentarsi in futuro.
La pandemia è considerata da molti alla stregua di un disastro, ma cos’è esattamente un disastro?
Concettualmente, il disastro – e questa pandemia lo è – è un processo sociale e ha almeno quattro fasi diverse: la fase precedente l’evento, in cui, in maniera più o meno consapevole, si favoriscono le condizioni di quel che avverrà; l’evento, nel nostro caso una pandemia; il periodo della ricostruzione, che si lega ad altre crisi concatenate alla causa scatenante, come la recessione economica, la rimodulazione degli spazi, la gestione dei rapporti sociali; l’implementazione di strategie di resilienza, che per noi sarà l’immunizzazione grazie ad un vaccino, ma anche il potenziamento del sistema sanitario e il sostegno alla ricerca. In questo momento, ci troviamo ancora nel pieno dell’evento, ma è giusto cominciare a ragionare sulle modalità della ricostruzione e accompagnare l’uscita dall’attuale emergenza.
Cosa potrebbe succedere quando verrà comunicato alla gente di potersi nuovamente riassembrare?
Per immaginare cosa avverrà al momento del deconfinamento, bisogna costruire degli scenari possibili che tengano conto di almeno altri due parametri, cioè il quando e il come avverrà. Stando alla tendenza europea, un’apertura potrebbe avvenire nella prima metà di maggio, ma a patto che il contenimento del coronavirus prosegua lungo il percorso attuale. Per quanto riguarda il come, invece, probabilmente sarà per scaglioni d’età o per aree geografiche, con un isolamento verosimilmente prolungato per gli anziani e gli abitanti di zone con focolai d’infezione preoccupanti. In altre parole, se la chiusura è stata repentina e pressoché totale, la riapertura sarà lenta e graduale. Non sarà dunque possibile riassembrarsi; il “distanziamento fisico” non potrà che continuare al fine di evitare “rimbalzi”, cioè dei nuovi aumenti del numero di contagiati.
Riunirsi per strada è una cosa, ma che quadro si potrebbe descrivere per quanto riguarda grandi eventi, come i concerti?
Secondo una stima di un gruppo di epidemiologi dell’Università di Harvard, per ridurre l’espansione del virus sarà necessario restare distanti fino al 2022. Potrebbero esserci isolamenti intermittenti, ma comunque l’attenzione non può essere abbassata per i prossimi due anni, che sono quelli necessari per avere un vaccino o una profilassi efficace e, soprattutto, per la loro somministrazione su scala planetaria. Parallelamente tutti i grandi eventi a cui eravamo abituati e che cadenzavano il nostro ciclo dell’anno dovranno essere ripensati o, purtroppo, sospesi per molto tempo. Penso alle partite settimanali di calcio o basket, che forse potranno essere giocate ma a porte chiuse; agli eventi sportivi annuali come il Giro d’Italia di ciclismo, la cui edizione 2020 difficilmente potrà essere recuperata; alla stagione dei concerti pop e rock tra giugno e luglio, che temo quest’anno non potranno tenersi, o ai festival cinematografici in autunno, che sono ancora a rischio.
Esiste un precedente – mi riferisco proprio al rapporto pandemia/grandi assembramenti – a un evento del genere?
La storia umana è piena di epidemie: tifo, peste, colera, vaiolo e febbri di vario tipo sono scoppiate ovunque sul pianeta, sempre. La storia del nostro continente, l’Europa, è strettamente intrecciata a quella di agenti patogeni che periodicamente hanno diffuso morte e terrore. Anche nel Novecento abbiamo avuto molte epidemie: dall’influenza cosiddetta “Spagnola” del 1918-19 a quella “Asiatica” del 1957-58, dall’HIV/AIDS emerso nei primi anni ’80 all’influenza H1N1 del 2009-10. L’attuale pandemia di COVID-19 è molto contagiosa e in brevissimo tempo ha raggiunto un’estensione planetaria come non si era mai visto, con tutte le conseguenze sanitarie ed economiche che sappiamo.
Frutto degli sviluppi della modernità, giusto?
È una malattia del XXI secolo, che ha raggiunto ogni Paese perché il pianeta si è “ristretto” con la globalizzazione: come scrive David Quammen in "Spillover", è come se “il patogeno avesse la sinistra abilità di farsi dare passaggi in aereo”. Allo stesso tempo, è proprio grazie alla globalizzazione che stiamo affrontando sia il virus, sia la quarantena: la ricerca medica da un lato e la tecnologia informatica dall’altro ci danno speranza e ci permettono di mantenere relazioni sociali come non avremmo potuto fare anche solo dieci anni fa. Qualsiasi paragone tra questa pandemia e altri casi nel passato può essere fatto solo su scala più ridotta ed è per questo che in Europa (e solo in Europa) inizialmente ha avuto molta eco la metafora bellica, perché l’ultima volta che il nostro continente era stato travolto da un evento drammatico “mondiale” fu 80 anni fa con la guerra.
Uno dei problemi che ci si pone, parlando di grandi eventi, è la paura che assalirà la gente anche quando sarà dato il via libera. Quanto è un problema reale e come lo si può affrontare?
Una delle difficoltà che abbiamo dovuto superare all’inizio dell’emergenza Covid-19 è quella della riconoscibilità del rischio. C’è una differenza enorme tra gli scienziati e le popolazioni: i primi registrano un fenomeno, mentre le seconde ne possono solo fare esperienza diretta. Questa discrepanza è stata studiata nel caso delle radiazioni nucleari di Chernobyl, ma anche testimoniato da artisti e scrittori, come il Premio Nobel Svjatlana Aleksievič, che racconta stupore dinanzi a un mondo che, dopo la catastrofe, aveva la stessa forma di sempre, eppure non era più lo stesso: “Non si vedeva, la morte, non si toccava, non aveva odore. Mancavano persino le parole, per raccontare della gente che aveva paura dell’acqua, della terra, dei fiori, degli alberi. Perché niente di simile era mai accaduto, prima”. Nell’immediato post-quarantena, dunque, è probabile che si sarà più diffidenti verso gli altri e timorosi verso il futuro; la fiducia sarà un privilegio e le difficoltà economiche di molti accentueranno fragilità individuali e collettive. Allo stesso tempo, però, i disastri non sono solo bruschi collassi, ma anche momenti in cui si registra un aumento della solidarietà e della condivisione, in cui spesso si intensifica l’impegno politico-sociale e in cui si attivano elementi di intraprendenza.
Cosa succederà quando qualcuno tossirà?
L’invisibilità del pericolo, dicevo, rende difficile prenderne coscienza, ma dopo settimane di quarantena e con il quotidiano bollettino di morti e ricoverati, geograficamente e umanamente sempre più vicini, abbiamo introiettato certe nozioni. Questo non può che avere un impatto forte nel prossimo futuro, sul piano sociale e culturale. I “gesti barriera”, come vengono chiamati in Francia, diverranno usuali: tossire e starnutire nella piega del gomito, usare le mascherine quando si è raffreddati, lavarsi più frequentemente le mani… Allo stesso modo, saranno condannati i gesti che non vi si conformeranno. Così come oggi è impensabile fumare in un cinema o in aereo, in futuro potrebbe essere stigmatizzato il tossire senza attenzione. Gli esseri umani hanno una grande capacità di adattamento, lo vediamo in queste settimane nelle file ben organizzate all’ingresso dei supermercati o nel darsi la precedenza quando ci si incrocia sul marciapiedi. Oggi tutti guardiamo con ammirazione il rigore con cui da decenni in certi Paesi asiatici si indossano le mascherine; probabilmente diverrà una prassi anche in Europa, perché oltre a ridurre l’esposizione individuale e collettiva al virus, fornisce un senso di protezione e controllo, che è una necessità durante i periodi di incertezza. Contrariamente a quanto si sente dire spesso, non si tratta di “predisposizioni culturali” di certe popolazioni, ma di risposte che emergono se si presenta l’esigenza e se si sviluppa un determinato discorso pubblico: in Giappone, ad esempio, le mascherine non sono sempre esistite, ma sono state introdotte dopo la pandemia di “febbre spagnola” del 1918, in conseguenza di una precisa volontà politica.
In che modo l’età influenzerà questi cambiamenti?
Il Covid-19 colpisce tutti, ma diverse categorie sono particolarmente esposte, per cui bisognerà averne cura e premura. Dal punto di vista demografico, sono due le fasce d’età da trattare con attenzione: gli anziani sul piano sanitario e i bambini su quello relazionale. I primi dovranno continuare l’isolamento, i secondi avranno bisogno di svago e incontri, dovranno riprendere la scuola e in qualche modo tornare nei parchi giochi. Questo vuol dire che il piano di uscita dall’emergenza deve procedere innanzitutto a mettere in sicurezza le categorie più fragili, prima di immaginare chi riparte, come e quando. La scuola, ad esempio, potrà riprendere riducendo le classi e gli orari, così da distribuire gli ingressi nel corso della giornata, ma per gli asili nido la questione è più delicata, ecco perché nonni e nipoti difficilmente potranno stare insieme, almeno fino a quando non sarà possibile avere un quadro chiaro dello stato di salute di tutti e non si stabilirà l’immunità per decine di milioni di persone.
Questa paura potrebbe portare a un riassetto anche delle infrastrutture legate, appunto, ai grandi assembramenti?
Innanzitutto sarà necessario gestire i flussi e le relazioni, poi si potrà provvedere a riformulare gli spazi. Per alcune attività economiche non sarà possibile, per cui bisognerà ridisegnarle o riconvertirle: i ristoranti, ad esempio, dovranno ridurre il numero dei loro tavoli, ma ciò potrebbe non garantire più la sostenibilità del lavoro. Forse potranno allargare la cucina e occuparsi soprattutto di asporto, ma anche questo comporta investimenti che non tutti sono in grado di affrontare. Un aiuto potrebbe arrivare dall’informatica che ha certamente le capacità per elaborare applicazioni con cui regolamentare i flussi, ma questo apre questioni di cyber-security e di sorveglianza informatica. In altri casi potremmo riscoprire vecchie modalità, come i cinema drive-in. A questo proposito, vorrei ricordare che a volte i drammi permettono di sanare certe carenze. Un esempio è quello dell’incendio del cinema Statuto di Torino che, il 13 febbraio 1983, provocò la morte di 64 persone, soprattutto per intossicazione da fumi: le poltrone, i tendaggi, le lampade erano tutte in materiali altamente infiammabili. Si scoprì così che gran parte dei cinema e dei teatri italiani, soprattutto quelli storici, erano rischiosi e che necessitavano di pesanti modifiche strutturali, eppure fu fatto ed oggi sono certamente luoghi molto più sicuri.
La pandemia abolisce il divertimento e la spontaneità?
Sul piano degli spettacoli, ritengo che per i prossimi 12-18 mesi non sarà possibile tornare ad eseguirli e ad assistervi; se forse un concerto di musica classica può essere immaginato distanziando i musicisti e gli spettatori, magari in spazi particolarmente ampi come le arene a cielo aperto usate soprattutto d’estate, praticamente impossibile è ipotizzarlo per i concerti pop e rock, che hanno senso proprio nel coinvolgimento fisico del pubblico. Ma c’è sempre la possibilità di una sorpresa, perché gli esseri umani sono più propensi a reagire che a subire. Questo non vale ovunque, perché ci sono zone in cui il coronavirus sta colpendo in maniera più violenta e drammatica, ma come abbiamo visto fin dai primi giorni del confinamento, le persone sono riuscite a rielaborare rapidamente la socialità, che infatti ha preso forme e direzioni inedite: si canta dalle finestre, si applaude sui balconi, si comunica col suono o con le luci, ci si dà appuntamento ad un determinato orario per sentire le campane, per pregare o per continuare a comunicare seppure a distanza. Certo, aumentano anche i sospetti e le invettive (contro i runner o addirittura contro gli operatori sanitari che in più luoghi sono stati trattati alla stregua di untori), ma vanno presi come sintomi dello stress e dell’ansia di questa condizione. Quel che ci dicono gli studi sociali e l’esperienza di queste settimane è che la socialità non può essere limitata e che, anzi, la socialità tiene in piedi le comunità, per cui finché l’alimenteremo, avremo speranza.
In che modo il distanziamento sociale che stiamo sperimentando in questi giorni potrebbe influenzare il noi dei prossimi mesi?
Da antropologo, osservo quanto sta avvenendo, e naturalmente io stesso mi inserisco dentro questa osservazione: soppeso come si è trasformato il mio quotidiano, come vivo gli spazi domestici, come ci si tiene in contatto da un appartamento all’altro… Ritengo che la tecnologia avrà un peso maggiore nella comunicazione e nel lavoro e che questo potrebbe portare a ridisegnare gli spazi della propria casa, in modo da permettere a tutti di tenere in contemporanea videochiamate, teleconferenze e telelavoro. I ragazzi e le ragazze più giovani sono già ampiamente immersi in questo sistema di comunicazione, per cui mi sembra che per loro sia più facile adattarvisi, ma noto che anche le persone più anziane hanno rapidamente preso confidenza con strumenti tecnologici fino a poco tempo fa largamente sotto-utilizzati. Su un piano più grande, c’è da immaginare nuove modalità di trasporto pubblico e anche nuove forme sanitarie, perché sarà necessario aumentare le cure a domicilio e le cliniche mobili, così da evitare spostamenti non necessari e allentare la pressione sugli ospedali che, come mostra il caso della Lombardia, purtroppo possono talvolta essere dei cluster del contagio.
Come si muovono le persone dopo i disastri, cosa può succedere dopo questa pandemia?
Prima del Covid-19 le nuove urbanizzazioni tendevano già a seguire un modello “americano”, cioè con case isolate e ampi spazi verdi, per cui, per chi potrà permetterselo, è verosimile immaginare che la tendenza continuerà in quella direzione. Altra inclinazione che esiste da anni riguarda la videosorveglianza e la gentrificazione di molte città, che in conseguenza dei sospetti e delle paure seminate dall’epidemia potrebbero accentuarsi, spingendo con ancora maggior determinazione fuori dai centri urbani tutto il non conforme, come dimostra l’architettura ostile anti-homeless o le baraccopoli sotto i cavalcavia. Ma come dicevo prima, i disastri attivano anche altre leve, più propositive e costruttive, per cui potrebbe esserci anche maggior apertura ed empatia, più inclusione e attenzione, perché avremo finalmente compreso che la sicurezza e il benessere degli altri sono la base su cui poggia anche la sicurezza e il benessere di ciascuno.