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Morte di Silvio Berlusconi

Come proseguirà l’inchiesta sulle stragi di mafia in cui era indagato anche Silvio Berlusconi

Dopo la morte di Silvio Berlusconi resterà solo Marcello Dell’Utri, il politico e amico fedelissimo del leader di Forza Italia già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, l’unico indagato dell’inchiesta per stragi della Procura di Firenze.
A cura di Giorgia Venturini
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Avrà solo un indagato d'ora in poi l'indagine della Procura di Firenze sulle stragi di cosa nostra del '93 di Roma, Milano e Firenze. Dopo la morte di Silvio Berlusconi resterà solo Marcello Dell'Utri, il politico e amico fedelissimo del leader di Forza Italia già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. La magistratura del capoluogo toscano li aveva indagati per accertare un loro possibile coinvolgimento per concorso nelle stragi. Ora la Procura di Firenze chiuderà l'inchiesta su Berlusconi mentre andrà avanti a indagare su Dell'Utri, oggi un uomo libero dopo aver scontato una pena di sette anni. Non è la prima volta che Berlusconi era indagato su inchieste di mafia, ma nei suoi confronti non si è mai arrivati a una condanna.

Su cosa indaga l'inchiesta della Procura di Firenze

La nuova indagini sulle stragi del '93 era iniziata dopo che Giuseppe Graviano (non è un collaboratore di giustizia), sentito in aula durante il processo ‘ndrangheta stragista di Reggio Calabria, aveva parlato di incontri e di investimenti di cosa nostra nella società di Berlusconi. Così vennero aperte nuove indagini sull'ex Cavaliere e sul suo braccio destro Marcello Dell'Utri: l'obiettivo degli inquirenti è quello di approfondire i presunti rapporti tra i Graviano, Berlusconi e Dell'Utri. Al centro delle indagini ci sono ancora investimenti, interessi e patti tra politica e cosa nostra. Questa volta però a fare il nome di Berlusconi è uno dei Graviano, uno dei boss delle stragi. Quale rapporto ci fosse tra i tre è quello su cui si sta concentrando la Procura del capoluogo toscano. I due indagati (ora uno) però già in passato – come accertato da una sentenza in via definitiva – erano già scesi a patti con l'organizzazione criminale siciliana.

I pagamenti di Berlusconi tramite Dell'Utri a cosa nostra

Alcuni incontri tra i due indagati e la mafia siciliana erano stati accertati già nella sentenza della Cassazione del 2014 che aveva confermato la condanna per associazione mafiosa a Marcello Dell'Utri. Nessuna condanna per l'ex premier, ma la sentenza accertò che Berlusconi aveva accertato un patto di protezione tra lui e i boss di mafia.

Nella sentenza della Cassazione del 2014 si legge: "Da un punto di vista oggettivo veniva ritenuta provata la prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi a cosa nostra negli anni '80 sulla base della causale del patto di protezione con la mafia". I giudici della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione accertarono che Marcello Dell'Utri aveva fatto da mediatore tra il fondatore di Mediaset e alcuni esponenti di spicco di Cosa Nostra: durante un incontro era nato un accordo di protezione mafiosa.

Cosa prevedeva il patto di protezione tra Berlusconi e cosa nostra

Come stabilito dai giudici della Cassazione, "il vantaggio per l'imprenditore Berlusconi" era quello "della ricezione di una schermatura rispetto ad iniziative criminali – essenzialmente sequestri di persone – che si paventavano ad opera di entità delinquenziali non necessariamente e immediatamente rapportabili a cosa nostra o, quanto meno, all'articolazione palermitana di cosa nostra di cui veniva, in quel frangente, sollecitato l'intervento, e quello di natura patrimoniale per la stessa consorteria mafiosa". In altre parole: Berlusconi pagava la mafia per avere in cambio protezione per difendersi dal altre possibili organizzazioni criminali.

L'incontro a Milano tra cosa nostra e ‘ndrangheta

A dimostrare il patto tra Berlusconi e cosa nostra furono anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino. Questo ai magistrati aveva dichiarato che a fine degli anni Settanta aveva accompagnato Stefano Bontate – esponente di spicco della mafia palermitana –  e Vito Cafari – massone calabrese vicino alla ‘ndrangheta – a Milano dove si era tenuto un incontro tra loro e alcuni esponenti della Locri, "intenzionati a sequestrare Berlusconi o un suo familiare".

Stando a quanto si legge dalla sentenza della Cassazione "nel corso di tale incontro Bontate manifestava la sua contrarietà per il progetto e si spendeva efficacemente per impedire la sua attuazione, rappresentando possibili pericolose reazioni di cosa nostra. Bontate aveva confidato al collaboratore di giustizia Siino che i fratelli Pullarà avevano protetto Berlusconi dalle ingerenze calabresi e dalle vessazioni provenienti da quell'ambiente".

Il boss Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore

A garantire la protezione a Berlusconi era il boss Vittorio Mangano, soprannominato "lo stalliere di Arcore" data l'attività che svolgeva presso la villa brianzola al Cavaliere. Prima del suo trasferimento al Nord era stato già arrestato tre volte e si era già presentato davanti ai giudici per truffa aggravata, emissione di assegni a vuoto, ricettazione, lesioni volontarie e tentata estorsione. Era lui però a proteggere Berlusconi, era lui la prova che il patto di protezione era andato a buon fine.

Dopo l'allontanamento di Mangano dalla villa, Berlusconi si era premunito di un servizio di protezione privata ma l'imprenditore – stando a quanto definiscono i giudici – "aveva manifestato in modo chiaro la convinzione che per la propria attività la protezione istituzionale o privata non era sufficiente".

Gli attentati subìti negli anni da Berlusconi

Negli anni Berlusconi ha subìto alcuni attentati: il 26 maggio del 1975 era esplosa una bomba nella villa dell'imprenditore in via Rovani a Milano. Una seconda bomba era esplosa nella stessa villa nel 1986. I dubbi erano ricaduti su Mangano, ma durante una chiamata tra Berlusconi e Dell'Utri gli investigatori avevano sentito l'ultimo escludere che il boss fosse l'autore almeno dell'ultima bomba dal momento che si trovava ancora detenuto (Dell'Utri però non era venuto subito a conoscenza della detenzione di Mangano, questo dimostrava che nel 1986 i due non si sentivano più).

Restano i dubbi sulla matrice dell'attentato del 1986: secondo le dichiarazioni di Giovanni Brusca (boss stragista e poi collaboratore di giustizia) sarebbe stata cosa nostra a far esplodere le bombe per indurre Berlusconi a pagare anche dopo la morte di Bontate. Queste dichiarazioni però erano state trascurate e mai accertate.

Il patto di protezione con Totò Riina

La sentenza della Cassazione aveva accertato anche che il patto di protezione di Berlusconi e Dell'Utri con cosa nostra era sopravvissuto anche dopo la seconda guerra di mafia in cui si imposero i Corleonesi di Totò Riina su i palermitani di Stefano Bontate ucciso nel 1981: "Il sopravvento di Riina e dei corleonesi non avevano mutato gli equilibri che avevano garantito l'accordo del 1974 tra Berlusconi e cosa nostra, grazie all'intermediazione di Dell'Utri, che aveva assicurato da un lato la generale protezione dell'imprenditore e dall'altro profitti e guadagni illeciti utili al rafforzamento e/o alla conservazione dell'associazione mafiosa che, per circa un ventennio, aveva mantenuto contatti con il facoltoso imprenditore". E ancora: "Berlusconi aveva costantemente manifestato la sua personale propensione a non ricorrere forme istituzionali di tutela, ma ad avvalersi piuttosto dell'opera di mediazione con cosa nostra svolta da Dell'Utri".

Unica differenza a seguito della vittoria dei corleonesi alla seconda guerra di mafia era che Riina aveva chiesto il raddoppio della somma per garantire la protezione ma – sempre secondo i giudici della Cassazione – il raddoppio della somma richiesto dal capo di cosa nostra non aveva cambiato i rapporti tra le parti interessate, "come comprovato dal fatto che ad esso non avevano fatto seguito alcun rifiuto o lamentela". Unica differenza è che Dell'Utri non interloquiva direttamente tra i capi di Cosa Nostra come all'epoca di Stefano Bontate ma con fedelissimi di Riina. Quest'ultimo infatti non ammetteva contatti diretti con i vertici dell'organizzazione criminale.

Berlusconi non è mai stato condannato per reati di mafia

Questo patto di protezione a un certo punto smise di esistere. Ma un patto c'è stato ed è stato accertato dalla Procura: non ci fu mai però nessuna prova che soldi di mafia siano stati investiti nell'impero economico di Berlusconi. Le parole di Graviano però su un possibile investimento aveva fatto aprire l'inchiesta della Procura di Firenze. A differenza dell'amico Dell'Utri, presente ai funerali del Cavaliere, Berlusconi non venne mai condannato per reati legati a fatti di mafia. Su di lui però indagava ancora una Direzione Distrettuale Antimafia. Davanti ai giudici del processo Trattativa Stato Mafia si è avvalso della facoltà di non rispondere.

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