Com’è possibile che lo stupratore seriale di Mestre non sia mai stato dichiarato “socialmente pericoloso”

Massimiliano Mulas è il 45enne arrestato a Mestre per aver violentato una bambina di 11 anni. Nei giorni successivi alla violenza è emerso che da anni manifestava un comportamento criminale.
Nel 1998 a Nuoro decapitò un cane e inviò la testa in un contenitore di detersivo a una ragazza per minacciarla. Nel 2006 a Padova tentò di violentare due studentesse sotto la minaccia di un coltello: per questi fatti venne condannato a 8 anni e tre mesi di carcere.
Prima ancora, nel 2002, era stato arrestato a Cavalese per il tentato stupro di una turista e condannato a 4 anni e 6 mesi. Di recente, era stato coinvolto in una presunta aggressione sessuale ai danni di una minorenne a Perugia, accuse poi cadute. Tuttavia, nessun tribunale lo ha mai definito "socialmente pericoloso" disponendo una misura di sicurezza.
Per cercare di fare chiarezza sul concetto di "pericolosità sociale" e sulle ragioni che potrebbero aver motivato questa scelta, Fanpage.it ha intervistato l'avvocata penalista Simona Ceretta.
"Le misure di sicurezza sono provvedimenti solitamente applicati dal giudice della cognizione, ovvero quello che emette la sentenza, e che trovano la loro espiazione a conclusione dell'esecuzione della pena, che sia in regime carcerario o di misura alternativa", ci spiega.
Misure che solitamente vengono applicate per soggetti socialmente pericolosi. "Bisogna dire però che il giudice della cognizione non ha un obbligo, ma una discrezionalità, – aggiunge – legata a un giudizio sulla pericolosità sociale che a volte risulta difficile da fare solo sulla base della documentazione presente negli atti. Questa è già una prima difficoltà".
La pericolosità si basa su una serie di elementi, sia dal punto di vista delle caratteristiche del soggetto, sia legati ai fatti che ha commesso. Si parte con la richiesta in sede di cognizione e quindi la proposta di una misura di sicurezza. Queste si dividono in detentive e non detentive.
"La misura utilizzata prevalentemente è la libertà vigilata, che impone al soggetto una serie di comportamenti che deve rispettare", spiega ancora l'avvocata.
Entrando nello specifico del caso di Mulas, Ceretta osserva: "È vero che nel caso di questo soggetto si contano diversi episodi, ma solo due hanno poi portato a un'effettiva condanna. L'ultima risalente al 2006 perché, per i fatti accaduti a Perugia, il procedimento è stato archiviato".
Il giudice chiamato nel 2006 a valutare l'eventuale pericolosità sociale di Mulas si è infatti trovato davanti una sola condanna come precedente. "Questo tipo di passaggio è legato alla discrezionalità del giudice che deve avere tutti gli elementi per definire la pericolosità nell'ambito della probabilità e non di possibilità di reiterazione del fatto", spiega ancora Ceretta.
"Contando poi che durante l'esecuzione della pena ci sono programmi che puntano al recupero, è probabile, ma è una mia ipotesi, che il giudice in quel momento non abbia avuto gli elementi sufficienti a far scattare il campanello d'allarme per poter dire: ‘Applichiamo una misura'".
La valutazione diventa invece più semplice nel caso in cui si presenti "una possibile alterazione della capacità di intendere e di volere, – prosegue ancora l'avvocata – perché in quel caso subentra la relazione di un esperto che può dare elementi in più al giudice che solitamente ha in mano solo il casellario".
Non sempre ai giudici vengono infatti rese note tutte le occasioni in cui un individuo ha avuto a che fare con le forze dell'ordine ma solo le eventuali condanne.
"Il giudizio di pericolosità sociale è un tema molto delicato, soprattutto se privo di diagnosi da un punto di vista medico, perché se ci sono disturbi della personalità certificati, questo può aiutare nella valutazione sulla sussistenza o permanenza dell'applicazione della misura di sicurezza", aggiunge ancora Ceretta.
"Trovare una soluzione sarebbe quindi utile ma non è così semplice. Si potrebbe valutare per determinati tipi di reato, come la violenza sessuale, l'obbligatorietà di una valutazione del soggetto da un punto di vista psichiatrico. Ma è difficile riuscire a introdurre una norma generale che preveda una simile imposizione".
"Potrebbe invece essere utile riuscire a creare un tavolo di lavoro con figure con competenze diverse – suggerisce l'avvocata – per riuscire a capire quale potrebbe essere lo strumento migliore per evitare in concreto che si verifichi la reiterazioni di fatti così gravi".