Quando le sirene hanno cominciato a suonare, intorno alle 17.30 di un giorno lavorativo, i lavoratori della Mayfield Consumer Products hanno chiesto di potersi mettere al riparo: sapevano che il candelificio in cui lavoravano era un edificio particolarmente vulnerabile ai tornado. Non sono stati ascoltati. Quando alle 21 le sirene hanno suonato di nuovo, gli operai erano ancora nei reparti, a finire il loro turno da 10 ore. Il tornado ha raso al suolo la fabbrica di candele, otto operai sono morti.
È successo lo scorso dicembre, in Kentucky, ma è solo uno degli esempi sempre più frequenti di come la crisi climatica stia incidendo pesantemente sulla sicurezza lavorativa. Al netto aumento di fenomeni meteorologici estremi emerso negli ultimi anni, infatti, spesso non è conseguito un adattamento delle tutele per i lavoratori. Così, quando un tornando arriva a spazzare un’intera regione, quando le piogge torrenziali trasformano le strade in fiumi, quando incendi sempre meno controllabili rendono l’aria irrespirabile, molti lavoratori sono di fatto costretti a continuare con la propria routine come se niente fosse, esponendosi a rischi spesso fatali. Il più delle volte, a pesare maggiormente è l’eccesso di calore.
Lavorare sta diventando sempre più difficile (e pericoloso)
Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Copenhagen, nell’ambito del progetto HEAT-SHIELD, ha rivelato che almeno metà di tutta la forza lavoro europea è impiegata in settori che subiscono l’impatto di temperature sempre più elevate: dal settore manifatturiero a quello edilizio, dai trasporti, al turismo, all’agricoltura. Il risultato è che, ad oggi, il 70% di tutti i lavoratori europei durante il corso della giornata lavorativa si ritrova a subire condizioni di scarsa idratazione.
L’esposizione prolungata a temperature elevate può portare ad affaticamento, a una ridotta capacità visiva e coordinazione motoria, a problemi di concentrazione e, com’è prevedibile, a un maggior rischio di errori e di incidenti. Questo è particolarmente problematico in un mondo del lavoro in cui la produttività è ancora un parametro inaggirabile. Progetti come HEAT-SHIELD puntano proprio a risolvere questa discrepanza, promuovendo orari lavorativi più elastici, turni diversi a seconda del periodo dell’anno e delle condizioni meteo, un numero maggiore di pause e una maggiore disponibilità di acqua, nonché sistemi di aerazione e ombreggiamento che garantiscano riparo nelle ore più calde.
Oggi, più di un miliardo di posti di lavoro dipende dalla presenza un ambiente stabile e funzionale, e poiché il riscaldamento globale sta intaccando pesantemente il sostanziale equilibrio climatico che ha fatto da culla alla nostra civiltà, di qui ai prossimi anni le condizioni lavorative sembrano destinate a peggiorare. L’Organizzazione internazionale del lavoro ha previsto che, per colpa dell’aumento delle temperature e del conseguente restringimento delle ore lavorative, di qui al 2030 andranno persi almeno 72 milioni di posti.
A questa quota andranno presto aggiunti tutti quei lavori che diventeranno obsoleti con la transizione ecologica, è vero, ma anche le nuove occupazioni che emergeranno al loro posto.
Nuove scelte di carriera in un mondo in cambiamento
Una delle argomentazioni più care ai detrattori della transizione ecologica riguarda proprio i lavori che andranno persi per colpa dell’abbandono dei combustibili fossili. Si tratta di un’argomentazione capziosa, perché se da un lato è vero che una radicale decarbonizzazione dell’economia renderà obsoleti i lavori legati all’estrazione e alla raffinazione di combustibili fossili, nonché al loro sfruttamento per la produzione di energia elettrica, è anche vero che il numero di nuovi lavori che una riconversione del comparto energetico e produttivo potrebbe creare sono almeno 3 volte tanti.
Secondo un report pubblicato dall’Organizzazione internazionale del lavoro, una transizione ecologica trasversale porterà alla perdita di 6 milioni di posti di lavoro e alla creazione di 24 milioni di nuove occupazioni. Questa sproporzione non è poi così sorprendente, se teniamo conto che non stiamo parlando soltanto del settore delle rinnovabili, ma di un ampio ventaglio di campi che verranno trasformati dalla decarbonizzazione dell’economia, dall’edilizia, all’urbanistica, al comparto manifatturiero, etc.
Naturalmente è presto per cantare vittoria: come abbiamo già detto più volte, la transizione ecologica è tutt’altro che ben avviata, il sistema fossile continua a resistere ai tentativi di scardinamento e lo scoppio della guerra in Ucraina ha reso ancora più rigida questa impasse.
Ma se il nostro sistema economico ancora stenta ad accelerare questa transizione, tra i lavoratori c’è sempre più gente che sta facendo scelte di carriera orientate in una nuova direzione; soprattutto tra i più giovani. Una ricerca condotta nel 2018 da Deloitte ha rivelato che il 77% degli under 20 intervistati dichiara di ritenere importante che l’organizzazione o l’azienda per cui lavorano condivida una serie di valori per loro fondamentali, tra cui un’attenzione particolare per il problema climatico. Non si tratta soltanto di una questione di principio, è anche pragmatismo: chi oggi ha 30 o 40 anni ha valutato quale carriera perseguire nella convinzione che il mondo in cui avrebbe lavorato non sarebbe cambiato più di tanto; chi oggi ha 20 anni o meno, invece, si trova a fare questa scelta in un mondo che sta cambiando rapidamente, a volte in maniera imprevedibile. Alcuni dei settori che oggi paiono promettenti, potrebbero non esserlo più di qui a vent’anni, soprattutto se – come del resto è auspicabile – la transizione ecologica verrà avviata in modo drastico e trasversale.
Lavorare da casa, lavorare (molto) di meno
Nel frattempo, il concetto stesso di lavoro sta cambiando. In prospettiva, infatti, una decarbonizzazione dell’economia comporterà anche una ottimizzazione della logistica e delle emissioni legate al lavoro. Il che, in soldoni, significa che lo smart working e il coworking potrebbero rientrare nelle strategie aziendali per ridurre l’impatto climatico del lavoro. Uno studio commissionato da Regus nel febbraio del 2020, appena prima che la pandemia rendesse lo smart working una necessità, rivelava come la flessibilizzazione dei luoghi di lavoro avrebbe potuto garantire una significativa riduzione delle emissioni legate al pendolarismo. Il passaggio a una condizione di smart-working da casa o in coworking consentirebbe di ridurre le emissioni globali di circa 214 milioni di tonnellate all’anno di qui al 2030.
Ma i cambiamenti potrebbero essere ancora più profondi. L’abbiamo detto, per metterci al riparo dalla crisi climatica e avere qualche possibilità di arrestare il riscaldamento globale, è fondamentale abbandonare il mito della crescita e quello della produttività. Un’economia che non sia incardinata a una crescita indefinita sarà necessariamente un’economia meno produttiva, in cui il mantenimento e la conservazione delle ricchezze naturali emerga a discapito di un parametro insostenibile come il profitto. Al netto delle belle parole e dei discorsi teorici, però, tutto ciò significherà ridurre i consumi e la produttività entro livelli gestibili, e questo, in sostanza, implicherà lavorare di meno.
Una ricerca pubblicata nel 2019 da Autonomy, intitolata The Ecological Limits of Work, ha calcolato che, per contenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi, alcuni paesi come il Regno Unito, la Germania e la Svezia dovranno introdurre settimane lavorative da 12 ore complessive. Per ottenere un simile risultato, naturalmente, non basterà ridurre la produttività e sbarazzarsi del mito della crescita, sarà anche necessario accelerare il processo di automatizzazione nei vari settori, e sganciare una volta per tutte la sussistenza individuale dal lavoro.
Smontare il mito tossico del lavoro
Se per ora il reddito di base universale è un concetto che emerge nelle discussioni teoriche e in alcuni esperimenti pilota circoscritti (che peraltro stanno dando risultati incoraggianti), presto l’idea che ogni persona possa avere diritto a un corrispettivo monetario mensile fisso, privo di obblighi e non accumulabile, potrebbe non sembrare più tanto balzana. Un reddito di base universale ben amministrato consentirebbe di combattere la povertà estrema, di ridurre sensibilmente le emissioni legate al lavoro, nonché dare alle persone la libertà di sottrarsi da condizioni lavorative come quelle descritte a inizio pezzo. Inoltre, anche solo una riduzione significativa delle ore lavorative darebbe alle persone più tempo per prendersi cura di sé, o anche solo per riflettere sulla propria vita e su cosa effettivamente la renda ecologicamente e psicologicamente sostenibile.
Abbiamo detto più volte che la crisi climatica è anche una crisi di immaginazione. In attesa che il mito della crescita venga smantellato una volta per tutte, faremmo bene a immaginare come potremmo condurre una vita appagante senza appaltare i nostri sogni e le nostre ambizioni al lavoro.