C'è un gioco di prestigio che da qualche anno sta prendendo sempre più piede. È quello tramite cui governi e aziende fossili promettono con la mano sul cuore di stare facendo il possibile per decarbonizzare il comparto energetico mentre con l'altra, dietro la schiena, approvano nuove trivellazioni e nuove estrazioni di gas e petrolio.
E come tutti i giochi di prestigio tendenzialmente funziona: la gente vede più la mano sul cuore che quella dietro la schiena, gli uffici stampa confezionano comunicati spennellati di verde e una buona fetta del pubblico torna a casa con il cuore tranquillo.
Uno dei prestigiatori più spudorati e ardimentosi, negli ultimi tempi, è il primo ministro inglese Rishi Sunak, che da mesi insiste nell’affermare che l'approvazione di uno dei piani di estrazione petrolifera più consistenti al mondo sarà “del tutto coerente” con gli impegni presi dal Regno Unito in tema di decarbonizzazione.
Mercoledì, l'annuncio ufficiale è arrivato: il giacimento di gas e petrolio di Rosebank, nelle isole Shetland al largo della costa scozzese, potrà essere sviluppato. Questa volta, però, il gioco di prestigio potrebbe non funzionare, dato che una bella fetta di pubblico è determinata fin dall'inizio a rovinare lo spettacolo.
Un progetto vecchio e senza futuro
Se il nome Rosebank suona suggestivo è perché è quello di un whisky. Nel 2004, quando la Texaco ha scoperto il giacimento, andava di moda scegliere nomi bislacchi per i progetti estrattivi, Lagavulin e Talisker erano già stati presi, perciò la scelta ricadde su Rosebank. Erano tempi diversi, l'Accordo di Parigi era ancora lontano 11 anni, e le ricadute della crisi climatica non erano lontanamente tangibili quanto lo sono oggi: nonostante le maggiori aziende petrolifere fossero già da decenni al corrente degli enormi danni prodotti dall'estrazione e il consumo di idrocarburi, potevano ancora starsene al riparo dietro la schiena dei prestigiatori e progettare estrazioni che avrebbero impiegato decenni ad essere avviate.
Il giacimento di Rosebank è ad oggi il più grande progetto estrattivo nel Mare del Nord, parliamo di un totale stimato tra i 300 milioni e i 500 milioni di barili di petrolio. Questo significa che se il progetto di estrazione verrà effettivamente sviluppato, nei prossimi anni questo giacimento da solo comporterà la produzione di almeno 200 milioni di tonnellate di CO2, l'equivalente delle emissioni annuali di 40 milioni di cittadini europei, e praticamente le emissioni dei 28 paesi meno inquinanti del pianeta messe assieme.
Ma avviare un progetto estrattivo di questo calibro non è qualcosa che si fa dalla sera alla mattina. Rosebank, poi, è un giacimento ostico: parliamo di un sito di estrazione posto a più di un chilometro di profondità nel fondale marino, dove il petrolio è intrappolato in strati di arenaria chiusi tra rocce basaltiche che mal si prestano ad essere studiate con la tecnologia tradizionale. Tra il 2010 e il 2013, Chevron (che allora deteneva la licenza di esplorazione) ha posizionato 750 sensori sul fondo del Mare del Nord, e ha impiegato mesi a interpretare i dati. Poi c'è stata la fase progettuale, lo studio di fattibilità, le valutazioni di tipo economico e fiscale. Il risultato è che il semaforo verde è arrivato solo nel 2023, quando il settore fossile è ormai destinato a morire, e ogni nuovo progetto estrattivo si configura come un ingordo e scellerato accanimento terapeutico.
Uno spettacolo non riuscito
Per giustificare questa scelta, i prestigiatori del governo inglese hanno sventolato tre argomentazioni che di solito riescono a catturare l'attenzione del grande pubblico. “Continueremo a sostenere l'industria britannica del gas e del petrolio per supportare la nostra sicurezza energetica, per far crescere la nostra economia e contribuire a ottenere una transizione a forme di energia più pulite ed economiche”, ha dichiarato Claire Coutinho, ministro per la Sicurezza energetica del Regno Unito, per poi piantare al centro del palco l’infallibile spettro di Putin e dichiarare che il progetto garantirà “una maggiore indipendenza energetica, rendendoci più sicuri di fronte ai tiranni.”. Un’argomentazione che non sta in piedi, considerando che il paese ha tutte le carte in regola per avviare una transizione a eolico e solare, e rendersi ancor più indipendente sotto il profilo energetico.
La seconda argomentazione riguarda i posti di lavoro: il governo inglese sa che ancora oggi almeno 200.000 dei suoi cittadini sono impiegati nel settore fossile, perciò ha gioco facile a fare leva sulla prospettiva di arginare l’inevitabile declino che questo settore sta affrontando. Peccato che a conti fatti Rosebank non creerà più di 1600 posti di lavoro nella fase di sviluppo, e soltanto 450 sul lungo termine. Mentre come sappiamo, la transizione ecologica che Sunak sta cercando in tutti i modi di ritardare andrebbe a creare molti più posti di lavoro di quanti ne eliminerebbe.
La terza argomentazione riguarda il prezzo della benzina: Sunak e compagnia cantante stanno provando a nascondere le reali motivazioni della scelta su Rosebank (ossia che riusciranno a imporre il 75% di tasse sui profitti) assicurando che consentirà di abbassare il prezzo del petrolio per tutti i cittadini. Una falsità talmente palese che a sconfessarla ci ha pensato la stessa Equinor, compagnia petrolifera norvegese che detiene la quota di maggioranza del progetto “Se il Regno Unito avrà bisogno del petrolio di Rosebank, lo otterrà tramite i meccanismi del libero mercato.”
Tradotto: Rosebank non cambierà di un centesimo il prezzo del petrolio per i cittadini britannici.
Non è un caso che da mesi centinaia di cittadini, attivisti e parlamentari stiano protestando contro il progetto, Ora la campagna Stop Rosebank moltiplicherà i propri sforzi, sfruttando anche le vie legali, per tentare in ogni modo di impedire a Equinor di allestire l’impianto che a partire dal 2026 dovrebbe cominciare a pompare petrolio. E considerando come pressioni simili siano riuscite a bloccare (per ora) il giacimento di Cambo, un progetto simile sempre localizzato nel Mare del Nord, è lecito aspettarsi nuove proteste nelle isole Shetland come nel resto del Regno Unito.
Una finestra aperta per miracolo
Nel frattempo, proprio in questi giorni la IEA (l'Agenzia Internazionale per l'Energia) ha pubblicato un report sulla tabella di marcia della decarbonizzazione energetica, un documento che può risultare allo stesso tempo terrificante e promettente. I giochi di prestigio in questo caso non c'entrano: quello che emerge dalla Net Zero Roadmap 2023 è che la finestra di tempo per mantenere il riscaldamento al di sotto degli 1,5 gradi è sempre più stretta, ma nonostante gli annunci fatalistici degli ultimi mesi è ancora aperta, e questo grazie alla sbalorditiva crescita delle energie rinnovabili, in particolare il solare.
Mercoledì, la parlamentare verde Caroline Lucas ha definito la scelta del governo britannico “il più grande atto di vandalismo ambientale a cui abbia mai assistito”. Non sta esagerando: Rosebank è un tassello fondamentale della lotta alla crisi climatica; ma non è l’unico, e nemmeno il più pericoloso. Ci sono ancora tanti giacimenti sparsi per il globo con un potenziale inquinante di quasi cinque volte maggiore. Come già abbiamo raccontato su queste pagine, nel mondo esistono centinaia di “bombe di carbonio”, progetti che se venissero avviati arriverebbero a produrre oltre 600 miliardi di tonnellate di CO2, ben oltre il carbon budget globale (500 miliardi circa), ossia la quantità di emissioni che il pianeta può tollerare senza superare la soglia critica degli 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali.
Per mantenere il riscaldamento del pianeta al di sotto degli 1,5 gradi al di sopra del periodo pre-industriale è necessario decarbonizzare la nostra economia; per ottenere ciò fondamentale ridurre le emissioni drasticamente e dunque interrompere tutte le espansioni ed esplorazioni estrattive, così da mantenere sottoterra almeno il 60% del gas e del petrolio esistenti e il 90% del carbone; e questo richiede la volontà politica di scontentare aziende che dovranno rinunciare a miliardi di dollari di profitti.
La mossa del governo britannico rende ancora una volta palese quanto questa volontà manchi. Ma il problema non riguarda solo i conservatori. Il leader labourista Kier Stamer, per dire, ha subito voluto precisare che, nell’ottica di un futuro governo labourista, si impegnerebbe a mantenere attivo il progetto Rosebank. Il tutto premurandosi di specificare che l’obiettivo della transizione energetica rimane una priorità.
Insomma, quando si parla di energia fossile, e ci sono profitti a breve termine da spartire, i prestigiatori tendono ad abbondare in tutto l’arco parlamentare.