Che futuro ha chi si diploma ora, o chi si laurea? Che futuro può avere dentro l'Università, che corso, specialistica, dottorato intraprendere? Cosa fare dopo? E come è cambiata l'Università negli ultimi 10 anni? Ce lo spiega Pierluigi Musarò, ricercatore presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e research fellow presso l’Institute of Public Knowledge della New York University. Pierluigi ha costruito a Bologna la sua professione, eppure ha lavorato e si è formato anche all'estero: a New York, in Brasile, alla Berkeley University in California. E non si è limitato all'accademia: Pierluigi è anche presidente dell'associazione Yoda e ideatore del Festival del turismo responsabile IT.A.CÁ.
Parlando di opportunità accademiche, di proseguo di studi: qual è stato il tuo percorso?
Abbastanza classico: laurea in Scienze Politiche con lode, un anno di master in Brasile. Ho vinto il dottorato in sociologia (3 anni), poi 2 anni di post dottorato, un progetto europeo e 2 anni di assegni di ricerca. Alla fine sono diventato ricercatore a tempo indeterminato, un attimo prima che la riforma Gelmini li abolisse per renderli unicamente a contratto determinato (di tre anni, rinnovabile una sola volta). Poi o si diventa professore associati o si va a casa. Io, comunque, mi sono tenuto aperte altre porte: sono andato a studiare sei mesi alla Berkeley University in California, ho portato avanti alcuni progetti con l’associazione Yoda, e ora il Festival del turismo responsabile “IT.A.CÁ” qui a Bologna. Questo mi ha aiutato molto a non restare chiuso nella campana di vetro accademica.
Come è cambiata la carriera accademica negli ultimi 10 anni?
Finora ha contato lo “stare inchiodati alla poltrona”, lavorare subordinati al proprio professore ordinario che ti porta avanti. Ora questo è cambiato. Sono spariti i ricercatori a tempo indeterminato, quindi parte del tuo lavoro/carriera consiste anche nel trovare finanziamenti. E sono sempre meno quelli diretti dal ministero, sempre più quelli che devi trovare tu o il dipartimento. Devi avere capacità di fare fund raising, convincere i privati a finanziare dottorati o assegni di ricerca. Questo nelle facoltà scientifiche è molto comune, nelle umanistiche e sociali meno. E la maggior parte degli amministrativi dell’università fa fatica a gestire il fund raising, te lo devi inventare tu. Poi, è cambiata la valutazione dei titoli universitari: contano in maniera diversa le pubblicazioni – magari un articolo su una rivista buona conta di più di una monografia di 300 pagine – conta sempre più l’internazionalizzazione.
Baroni, rendite di potere, dottorati ad amici e parenti. Queste realtà sono ancora presenti all’interno delle università?
Come dicevo, il cambiamento della valutazione dei titoli e la necessità di trovarsi da soli i finanziamenti hanno giocato a sfavore delle rendite di potere. E poi sono cambiati i concorsi: se prima il “baronato” era forte perché i concorsi erano locali, ora bisogna superare (anche) l’abilitazione nazionale, con commissioni estratte. E non è scontato, visto che nel mio settore – sociologia – oltre l’80% dei partecipanti non ha passato il primo scoglio. C’è anche un ricambio generazionale: chi oggi potrebbe trovarsi nella posizione di fare il “barone” ha 50 anni e ragiona in maniera diversa.
Dai politici a Confindustria si dice che il vero problema dei giovani che non trovano lavoro in Italia sia dovuto al sistema formazione. È così?
È cresciuto il numero di laureati mentre il lavoro diminuiva. E poi una parte della formazione che una volta facevano le aziende è stata esternalizzata alle università. E te la paghi tu: se vuoi fare uno stage o un tirocinio di un certo livello devi avere fatto quel master. Il problema è che questo sistema formativo è spesso slegato dal vero mondo del lavoro. Da una parte l’università italiana riesce a darti una preparazione teorica di più ampio respiro, che serve. Ma è vero che non dà molti strumenti pratici. Negli Stati Uniti già alle scuole superiori e all’università studi – ad esempio – come fare un lancio stampa o una campagna pubblicitaria. Studi meno l’etica, la politica, l’estetica di quella campagna. Il sistema del 3 + 2 ha in parte peggiorato la situazione, con la laurea triennale che è diventata un prolungamento del diploma.
Hai studiato negli Stati Uniti eppure sei riuscito a realizzarti all’Università di Bologna. Cosa hai imparato dell’università italiana e dell’america?
Fra Usa e Italia c’è un gap mentale. Da noi chi è all’università si percepisce ancora come il detentore del sapere, e non valorizza chi fuori “fa”. Nel sistema anglosassone ti confronti con una diversa apertura mentale, e la meritocrazia. Questo è dovuto soprattutto al fatto che parliamo di università private, con rette da 40 o 50mila dollari l’anno. Con una selezione altissima: su 100 che si iscrivono passano in 10, o anche 7. Quando sono stato alla New York University ero un visiting student, cioè non ero nessuno. E sono riuscito comunque a parlare col direttore dell’istituto di ricerca, a fargli capire che avevo delle idee. Lui non mi ha chiesto che titolo avessi, mi ha detto: “Fammi una proposta, presentami un budget”. E mi hanno finanziato. In Italia una cosa del genere non esiste, perché l’università è pubblica, ci sono meno soldi, c’è più gerarchia.
Consiglieresti a un giovane oggi la carriera accademica?
Sì, assolutamente, il lavoro accademico è uno dei più belli al mondo. Pensare, scrivere, ricercare, organizzare. Però non ha più i benefit di una volta: io sono entrato, dopo tutte le tappe che ti ho detto, a prendere 1.200 euro a 35 anni. E dopo diversi anni arrivi a 1.500, 1.700 Euro. Lo status del professore non è più quello di una volta. Lo consiglierei, sì, ma a patto che non diventi l’unica professione. Lo farei assieme ad altri progetti affini e complementari. È meglio per te, ma soprattutto per l’università.
Foto: per gentile concessione di Pierluigi Musarò dal sito del Festival IT.A.CÁ, (cc creative commons license).