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Opinioni

Come cambia l’università in Italia: intervista a Pierluigi Musarò

Come è cambiata l’università italiana negli ultimi 10 anni? Che futuro per chi si laurea o diploma oggi? Ce lo spiega Pierluigi Musarò.
A cura di Michele Azzu
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Pierluigi Musarò con Vinicio Capossela al Festival IT.A.CÁ
Pierluigi Musarò con Vinicio Capossela al Festival IT.A.CÁ

Che futuro ha chi si diploma ora, o chi si laurea? Che futuro può avere dentro l'Università, che corso, specialistica, dottorato intraprendere? Cosa fare dopo? E come è cambiata l'Università negli ultimi 10 anni? Ce lo spiega Pierluigi Musarò, ricercatore presso la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e research fellow presso l’Institute of Public Knowledge della New York University. Pierluigi ha costruito a Bologna la sua professione, eppure ha lavorato e si è formato anche all'estero: a New York, in Brasile, alla Berkeley University in California. E non si è limitato all'accademia: Pierluigi è anche presidente dell'associazione Yoda e ideatore del Festival del turismo responsabile IT.A.CÁ.

Parlando di opportunità accademiche, di proseguo di studi: qual è stato il tuo percorso?

Abbastanza classico: laurea in Scienze Politiche con lode, un anno di master in Brasile. Ho vinto il dottorato in sociologia (3 anni), poi 2 anni di post dottorato, un progetto europeo e 2 anni di assegni di ricerca. Alla fine sono diventato ricercatore a tempo indeterminato, un attimo prima che la riforma Gelmini li abolisse per renderli unicamente a contratto determinato (di tre anni, rinnovabile una sola volta). Poi o si diventa professore associati o si va a casa. Io, comunque, mi sono tenuto aperte altre porte: sono andato a studiare sei mesi alla Berkeley University in California, ho portato avanti alcuni progetti con l’associazione Yoda, e ora il Festival del turismo responsabile “IT.A.CÁ” qui a Bologna. Questo mi ha aiutato molto a non restare chiuso nella campana di vetro accademica.

Come è cambiata la carriera accademica negli ultimi 10 anni?

Finora ha contato lo “stare inchiodati alla poltrona”, lavorare subordinati al proprio professore ordinario che ti porta avanti. Ora questo è cambiato. Sono spariti i ricercatori a tempo indeterminato, quindi parte del tuo lavoro/carriera consiste anche nel trovare finanziamenti. E sono sempre meno quelli diretti dal ministero, sempre più quelli che devi trovare tu o il dipartimento. Devi avere capacità di fare fund raising, convincere i privati a finanziare dottorati o assegni di ricerca. Questo nelle facoltà scientifiche è molto comune, nelle umanistiche e sociali meno. E la maggior parte degli amministrativi dell’università fa fatica a gestire il fund raising, te lo devi inventare tu. Poi, è cambiata la valutazione dei titoli universitari: contano in maniera diversa le pubblicazioni – magari un articolo su una rivista buona conta di più di una monografia di 300 pagine – conta sempre più l’internazionalizzazione.

Baroni, rendite di potere, dottorati ad amici e parenti. Queste realtà sono ancora presenti all’interno delle università?

Come dicevo, il cambiamento della valutazione dei titoli e la necessità di trovarsi da soli i finanziamenti hanno giocato a sfavore delle rendite di potere. E poi sono cambiati i concorsi: se prima il “baronato” era forte perché i concorsi erano locali, ora bisogna superare (anche) l’abilitazione nazionale, con commissioni estratte. E non è scontato, visto che nel mio settore – sociologia – oltre l’80% dei partecipanti non ha passato il primo scoglio. C’è anche un ricambio generazionale: chi oggi potrebbe trovarsi nella posizione di fare il “barone” ha 50 anni e ragiona in maniera diversa.

Dai politici a Confindustria si dice che il vero problema dei giovani che non trovano lavoro in Italia sia dovuto al sistema formazione. È così?

È cresciuto il numero di laureati mentre il lavoro diminuiva. E poi una parte della formazione che una volta facevano le aziende è stata esternalizzata alle università. E te la paghi tu: se vuoi fare uno stage o un tirocinio di un certo livello devi avere fatto quel master. Il problema è che questo sistema formativo è spesso slegato dal vero mondo del lavoro. Da una parte l’università italiana riesce a darti una preparazione teorica di più ampio respiro, che serve. Ma è vero che non dà molti strumenti pratici. Negli Stati Uniti già alle scuole superiori e all’università studi – ad esempio – come fare un lancio stampa o una campagna pubblicitaria. Studi meno l’etica, la politica, l’estetica di quella campagna. Il sistema del 3 + 2 ha in parte peggiorato la situazione, con la laurea triennale che è diventata un prolungamento del diploma.

Hai studiato negli Stati Uniti eppure sei riuscito a realizzarti all’Università di Bologna. Cosa hai imparato dell’università italiana e dell’america?

Fra Usa e Italia c’è un gap mentale. Da noi chi è all’università si percepisce ancora come il detentore del sapere, e non valorizza chi fuori “fa”. Nel sistema anglosassone ti confronti con una diversa apertura mentale, e la meritocrazia. Questo è dovuto soprattutto al fatto che parliamo di università private, con rette da 40 o 50mila dollari l’anno. Con una selezione altissima: su 100 che si iscrivono passano in 10, o anche 7. Quando sono stato alla New York University ero un visiting student, cioè non ero nessuno. E sono riuscito comunque a parlare col direttore dell’istituto di ricerca, a fargli capire che avevo delle idee. Lui non mi ha chiesto che titolo avessi, mi ha detto: “Fammi una proposta, presentami un budget”. E mi hanno finanziato. In Italia una cosa del genere non esiste, perché l’università è pubblica, ci sono meno soldi, c’è più gerarchia.

Consiglieresti a un giovane oggi la carriera accademica?

Sì, assolutamente, il lavoro accademico è uno dei più belli al mondo. Pensare, scrivere, ricercare, organizzare. Però non ha più i benefit di una volta: io sono entrato, dopo tutte le tappe che ti ho detto, a prendere 1.200 euro a 35 anni. E dopo diversi anni arrivi a 1.500, 1.700 Euro. Lo status del professore non è più quello di una volta. Lo consiglierei, sì, ma a patto che non diventi l’unica professione. Lo farei assieme ad altri progetti affini e complementari. È meglio per te, ma soprattutto per l’università.

Foto: per gentile concessione di Pierluigi Musarò dal sito del Festival IT.A.CÁ, (cc creative commons license).

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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