Ore cinque e trenta del mattino. Annamaria è sveglia, non riesce in alcun modo a riaddormentarsi e le parole di Stefano che la rassicurano sempre non servono a farla calmare. “Sto male, chiama un ambulanza", gli dice. Suo marito sa che non ha nulla, è perfettamente sana, nondimeno chiama il 118. "Buongiorno, ho mia moglie che non si sente bene". "Che cos’ha?"chiede la voce dall’altra parte. “Niente, dice che si sente mancare il respiro, ha il fiato corto si sente un po’ svenire diciamo….” risponde l’uomo con pacatezza. La guardia medica raggiunge la villetta in quella gelida mattina di gennaio. Annamaria sta bene, il suo è solo uno sconvolgimento emotivo molto forte. Stefano rimane sdraiato accanto a lei finché non arriva l’ora di andare a lavorare. Il peggio è passato e l’imprenditore va al lavoro lasciando Annamaria sola con i suoi fantasmi, in un giorno uguale a tutti gli altri. Tra poco deve alzarsi, bisogna accompagnare il piccolo Davide alla fermata dell’autobus per la scuola, riordinare la casa, preparare da mangiare e badare a Samuele, tre anni, che in quei giorni fa i capricci più del solito.
Mercoledì 30 gennaio 2002
È la quotidinaità in quel solitario villino di montagna che doveva essere il tempio della felicità familiare di quella giovane coppia. Stefano e Annamaria si erano conosciuti proprio in Val D’Aosta: fresca maturanda, lei aveva cominciato a lavorare in un B&B alle pendici del Gran Paradiso; lui aveva scelto proprio quel posto per la sua vacanza. Si erano innamorati subito e sebbene fossero originari entrambi dei colli bolognesi, avevano voluto andare a vivere nel luogo dove si erano conosciuti. Lì si erano ambientati subito: Annamaria era rimasta nella loro bella baita a badare ai due figli piccoli, Stefano aveva messo su un’impresa, era diventato consigliere comunale e membro del Soccorso Alpino. Una coppia che si amava, due bambini bellissimi, la famiglia ideale. Fino a quel 30 gennaio 2002.
"Mi aiuti a farne un altro?"
Poco meno di tre ore più tardi Annamaria fa due telefonate: una al medico di famiglia e l’altra al 118. “A mio figlio è scoppiato il cervello, aiuto”. Samuele, ‘Sammy', come lo chiama la mamma, è stato portato fuori da Ada Satragni, il medico di base di Cogne accorso a casa Lorenzi dopo quella terrificante chiamata. Pochi minuti dopo nell'area antistante la villa ci sono i vicini, Stefano, Annamaria e l'equipe del elisoccorso. Sammy ha la testa avvolta in una fasciatura improvvisata dalla Satragni, che diagnostica un'aneurisma. Per lo staff del 118 però quel bimbo non può aver avuto un'emorragia interna: ha la testa coperta di ferite, il cervello gli è schizzato fuori dal cranio. Alle 9 e 55 il piccolo muore sulla lettiga del pronto soccorso. Alcuni istanti prima che l'elicottero partisse dal 4A di Montroz, Cogne, qualcuno aveva sentito Annamaria dire al marito, mentre il piccolo Sammy respirava ancora: "Mi aiuti a farne un altro?".
Le indagini
Quarantotto ore dopo viene effettuata l'autopsia. Il bimbo non è morto di morte naturale, è stato colpito con una furia cieca da 17 colpi sferrati alla testa con un oggetto pesante. La villetta di Cogne, dove chiunque è entrato e uscito senza controllo, dopo che i soccorsi hanno lasciato l'abitazione, viene sequestrata per i rilievi delle forze dell'ordine. L'oggetto con cui il bimbo è stato aggredito non viene trovato: in compenso viene trovata una quantità enorme di sangue sul letto dove si è compiuta la tragedia. Ci sono anche tracce di materia cerebrale. Secondo una prima ricostruzione Sammy sarebbe stato colpito poco dopo le otto, nel lettone matrimoniale in cui la madre lo aveva messo perché smettesse di fare i capricci. Il fatto sarebbe avvenuto mentre Annamaria era uscita per accompagnare l'altro figlio alla fermata. Gli indumenti della mamma 31enne vengono posti sotto sequestro insieme ai suoi zoccoli. Ai funerali di Sammy tutto il paese è presente. Annamaria cammina tra Stefano e la dottoressa Satragni, sorretta da entrambi.
Le accuse
Quando, qualche tempo dopo, i Lorenzi cominciano a puntare il dito contro i vicini nell'inchiesta aperta dalla Procura di Aosta, Cogne si ritrae, isola quella coppia che aveva accolto con tanto entusiasmo. Marito e moglie accusano prima Daniela Ferrod e poi Ulisse Guichardaz: entrambi hanno un alibi. A quel punto i Lorenzi decidono di andarsene e si stabiliscono a Monte Acuto Vallese, sulle montagne bolognesi, nel paese d’origine di Annamaria. Quell'infanticidio così feroce prende le pagine dei giornali quasi quotidianamente. Le redazioni investono molto nell'inchiesta, mandano un presidio fisso sul posto, svolgono indagini per proprio conto. Tutto il circo mediatico gira intorno ad Annamaria Franzoni. Difficile dire cosa celi la giovane mamma nello sguardo nascosto dalla folta frangia bruna. Al suo fianco è sempre presente il marito Lorenzo, devoto, premuroso, innamorato come sempre. Anche gli inquirenti puntano la lente su Annamaria che nel marzo successivo viene arrestata, scarcerata e di nuovo incarcerata.
I processi: Cogne e Cogne bis
A quel punto subentra nella difesa, all'avvocato Carlo Federico Grosso, Carlo Taormina, ex sottosegretario di Stato, esponente di Forza Italia. La sua strategia è quella di far leva sui media per screditare il lavoro della Procura e dimostrare l'innocenza della donna. Annamaria partecipa a diverse trasmissioni televisive, ma le sue apparizioni in TV, che nelle intenzioni del team difensivo avrebbe dovuto suscitare empatia nell'opinione pubblica, hanno l'effetto opposto: la Franzoni risulta antipatica, specie quando piange e non sembra affatto sincera. Intanto nella casa dei Lorenzi a Bologna la famiglia ha messo su un vero e proprio ufficio stampa che comunica con i giornalisti e si occupa della posizione di Annamaria. Nello staff c'è anche un sacerdote. Sarà proprio il peso di questa seconda difesa a indurre l'avvocato Taormina ad abbandonare il caso per divergenze con il Lorenzi e con altre persone del team. La difesa di Taormina, particolarmente incisiva nel criticare il lavoro degli inquirenti e nell'indicare altri colpevoli, guadagnerà ai periti della difesa e ai coniugi Lorenzi l'accusa di calunnia nei confronti dei vicini all'interno del processo Cogne Bis, appendice investigativa del primo processo per omicidio. Nel 2004 Annamaria viene condannata a 30 anni di reclusione: contro di lei ci sono il suo comportamento incongruente, la possibilità di compiere il delitto ma, soprattutto, la morfologia delle macchie di sangue sui suoi indumenti. L'assassino, infatti, secondo i Ris, indossava gli zoccoli e il pigiama di Annamaria.
La sentenza
All’interno del processo d’Appello la Franzoni rifiuta di sottoporsi a perizia psichiatrica perché ciò postulerebbe la sua colpevolezza. Viene realizzata comunque una perizia indiretta attraverso le interviste in TV e altro materiale. Per i medici Annamaria è un soggetto con una personalità isterica e narcisistica che utilizza meccanismi di rimozione e negazione. Il giorno dell'assassinio Annamaria sarebbe stata in preda a uno ‘stato crepuscolare', nell'ambito del quale avrebbe compiuto il massacro del proprio figlio per poi rimuoverlo dalla coscienza. Una analisi che mal si concilia, però, con l'atteggiamento lucido avuto dalla donna subito dopo il delitto (secondo l'accusa Annamaria esce ad accompagnare Davide alla fermata per crearsi un alibi, ndr.) Dopo l'abbandono di Taormina, alla Franzoni viene assegnato d’ufficio l’avvocato Paola Savio. Nel 2007 viene condannata a 16 anni di reclusione, ridotti a 13 dall’indulto. Dal 2014 gode del regime di semilibertà.
L'epilogo
L'omicidio di Samuele Lorenzi, ucciso a 3 anni nel lettone dei genitori nella loro casa di Montroz , è uno di quei delitti che sono impressi nella memoria collettiva come un marchio a fuoco. Fuori dall'aula del processo ad Annamaria Franzoni, quando – su sua richiesta – il dibattimento divenne a porte aperte, centinaia di persone si accalcarono dentro e fuori l'aula. "È il processo del secolo" dicevano mamme e signori attempati venuti con il treno da lontano. "Potevo essere io" dicevano le donne. "Una madre non fa quelle cose" dicevano altre. Oggi la Franzoni ha scontato la sua pena e si è ricongiunta alla famiglia. Un anno dopo la morte di Samuele ha avuto un altro figlio. I figli e il marito l'hanno sostenuta in ogni momento della lunga vicenda umana e giudiziaria. La Franzoni ha seguito una terapia psichiatrica per i disturbi depressivi di cui soffriva. È stata giudicata non socialmente pericolosa perché non sussistono più le condizioni di solitudine e stress in cui avvenne il delitto.