Codice Rosso visto da una sopravvissuta al femminicidio: “Ecco cosa manca a questa legge”
Il testo di Codice Rosso, la nuova normativa in materia di e violenza sulle donne è stato approvato l'altro ieri. Promette indagini più veloci, pene severe e introduce due nuove categorie di reato, l'omicidio d'identità, per le vittime sfigurate con il fuoco o con l'acido e il revenge porn, che finalmente sanziona chi diffonde contenuti privati su internet, con specifiche aggravanti. Tra chi lo ha salutato come il grande cambiamento storico e chi grida alla manovra propagandistica, Codice Rosso ha scatenato opinioni contrastanti. Abbiamo chiesto il punto di vista a una vittima di un fatto di cronaca, Lidia Vivoli, la donna che sette anni fa si salvò per miracolo dalle coltellate del compagno, lo stesso uomo che non ha mai spesso di perseguitarla.
Un'opinione di pancia su Codice Rosso: che ne pensa?
"Penso che sia una vittoria perché dieci anni fa, se qualcuno avesse parlato di violenza sulle donne in Senato, gli altri si sarebbero messi a ridere. Attenzione però, è solo l'inizio. Un ottimo inizio, come quando Franca Viola rifiutò il matrimonio riparatore cinquant'anni fa. Ecco, spero che non passino altri cinquant'anni prima del prossimo progresso".
Pro e contro, cominciamo dai pro. Mi dica, da vittima, cosa la colpisce favorevolmente.
"Sono felice di una cosa, della proroga concessa per i tempi di denuncia, che ora superano i sei mesi. Ne sono felice perché oltre un anno fa io stessa lanciai una petizione su Change.org per chiedere proprio che i tempi di denuncia fossero allungati. Sei mesi non sono sufficienti neanche per uscire dallo choc, per superarlo emotivamente, figuriamoci per denunciare."
Lei quanto ci ha messo a elaborare il trauma e denunciare?
"Bisogna dire la verità. Nel mio caso, quando il mio compagno ha tentato di uccidermi, ho dovuto chiamare il 118, sono venuti i carabinieri e ho raccontato quello che era successo. Se non avessi chiamato l'ambulanza, non lo so quanto ci avrei messo per denunciare. Ci vuole tempo a elaborare il trauma e se poi parliamo di stupro, lì cambia completamente la percezione che hai di te stessa, quindi sei mesi non erano affatto sufficienti".
Altri pro?
"Uno, forse. Codice Rosso prevede che la vittima denunciante vada ascoltata entro tre giorni. Beh, io fui sentita dopo due giorni, questa fu una cosa utile. Ma se la vittima viene sentita dopo due giorni e il processo parte dopo un anno e dopo 5 mesi l'assassino viene messo in libertà, cosa abbiamo risolto? Alla fine non è quello che fa la differenza".
Cos'è che fa la differenza?
"La persona che viene arrestata rimane 5,6 mesi in custodia cautelare, il problema è che poi viene messa ai domiciliari. Nel mio caso era a 60 km di distanza da me, ma nel 90 per cento dei casi può essere al piano superiore dell'abitazione della vittima, può essere nella stessa abitazione, perché è l'ultimo domicilio conosciuto, può essere che la donna se ne debba andare in casa famiglia e lui rimanga a casa propria. I domiciliari non fermano nessuno, il mio ex mi veniva a cercare quando era ai domiciliari. Come dimostra il caso di Maria Antonietta Rositani, la donna a cui l'ex a dato fuoco dopo aver percorso 500 km in violazione della misura. I domiciliari non ci salvano e neanche gli ordini di allontanamento. L'unica vera alternativa al carcere è il braccialetto elettronico e la messa in sicurezza reale della donna".
Veniamo ai contro. Cosa critica in Codice Rosso?
"Le misure, punitive, riguardano solo l'uomo. Manca del tutto una legislazione assistenziale veramente efficace per la donna, che ha diritto a essere protetta, ma conservando la sua dignità. Anzi, l'impressione è che non riuscendo a rinchiudere o neutralizzare un uomo, si rinchiuda la donna. Perché le case famiglia non sono un luogo dove la vittima può sentirsi sicura e conservare la propria dignità. Nelle case famiglia non c'è libertà, non c'è privacy, non c'è una stanza singola, non c'è neanche la chiave per il bagno. Anche i pentiti, che sono criminali, quando iniziano a collaborare vengono protetti, garantiti e curati, molto meglio. Ecco, anche noi siamo collaboratrici di giustizia, noi siamo estremamente pentite di quello che abbiamo fatto, ma siamo incensurate e non abbiamo fatto male a nessuno e invece di ricevere un trattamento diverso da quello dei criminali ne riceviamo uno peggiore, veniamo vessate, maltrattate e umiliate. Si premia il criminale e non la donna che denuncia, che viene di fatto, punita per aver scelto l'uomo sbagliato, l'uomo violento".
Lei sta parlando di un processo di rivittimizzazione della donna, ma da parte dello Stato.
"Proprio così. Una donna ha torto ancor prima di denunciare. Ho avuto un duro confronto con un'assistente sociale che cercava di far passare il concetto che una donna vittima di violenza è una donna disturbata, perché ha scelto un uomo violento e che essendo fortemente stressata dalla violenza non può accudire i figli. Signori miei, ma lo vogliamo capire qual è lo stato di una vittima? È ovvio che sia stressata, è ansiosa, che abbia paura del mondo. Sono tutte scuse per alimentare il business delle case famiglia, quando invece una donna avrebbe bisogno di un aiuto individuale."
Di che genere di aiuto ha bisogno una donna che ha denunciato il marito violento?
"Di un domicilio sicuro che le garantisca dignità e autonomia. Di un sussidio che le consenta di vivere e portare avanti i propri progetti di vita, non dell'elemosina. Non me ne faccio niente di un corso di ricamatrice e una stanza in una casa famiglia, quando ho già una professione, un titolo di studi e magari un mutuo da pagare. La soluzione più sensata è quella che consente a una donna di vivere e andare avanti in continuità con il suo percorso di vita. Perché non è possibile che non potendo rinchiudere lui, si punisca lei".
Il legislatore fa le leggi, la magistratura le applica.
"Esatto. Vogliamo parlare di come veniamo trattate in tribunale? La vittima viva o morta che sia viene sempre screditata e trattata come una pu**ana. Siamo ancora a quello: una donna è giudicata per il solo fatto di non essersi tenuta un marito violento. Perché le donne non denunciano? Perché sanno che verranno giudicate e vessate in tribunale o dalle forze dell'ordine. Prendiamo, per esempio, i carabinieri che non intervennero per impedire l'omicidio di Annarosa Fontana, che chiamò i soccorsi prima di essere uccisa? Se in questi casi scattasse un licenziamento forse gli interventi sarebbero più tempestivi. Ma visto che giudici, avvocati e forze dell'ordine sono intoccabili e impunibili, perché dovrebbero cambiare atteggiamento?".
Cosa deve fare allora la politica?
"Cosa può fare la politica? Schierarsi, a favore della donna vittima di violenza, nei tribunale, nelle caserme, ovunque. Se questo non cambia, perché dorrebbero cambiare gli uomini violenti? Se il sistema è comunque, nonostante tutto in loro favore? Trovatemi un solo motivo per cui non dovrebbero ucciderci".