Il mio ingresso nel mondo del lavoro è coinciso con lo scoppio della più grave crisi recessiva della storia dal 1929. Era il 2009 e avevo 24 anni. Quando Franco Di Mare ha iniziato la sua carriera, sulla scia della seconda crisi petrolifera, le prospettive dei giovani boomer non dovevano essere così diverse da quelle di noi millennial.
Tra le poche certezze degli allora giovani napoletani, una di queste erano gli incontri alla compianta Fnac al Vomero, quartiere dove sono nato e cresciuto. Workshop, incontri con scrittori, registi, showcase e musica dal vivo, bookcrossing, maratone fotografiche, incontri d'arte, attualità, politica, letteratura, Dalisi, Morricone, Deaver, Grossman, i grandi reporter di guerra. Quella sera toccava proprio a uno di loro: Franco Di Mare, personaggio leggendario che ero abituato a vedere già da bambino negli scenari più apocalittici e infidi della Terra: guerra del Golfo, ex Jugoslavia, Somalia, Ruanda, Medio Oriente, attentati, carestie, tempeste e uragani.
Franco Di Mare presentava il suo ultimo libro: "Il cecchino e la bambina", una raccolta dei suoi peggiori ricordi, se così possiamo dire, da inviato di guerra. Del suo intervento, tremendamente attuale, mi colpì l'assenza totale di cinismo, di deformazione professionale, di assuefazione rispetto al dolore e alla sofferenza. Ero convinto che dopo tanti anni ci avesse fatto il callo e che per resistere in certi scenari senza impazzire o crollare dovevi mettere da parte le emozioni, l'empatia. Mi sbagliavo, era tutto il contrario.
Al termine della presentazione, afferrai un libro e gli chiesi: "Vorrei fare il giornalista, ma tutti mi dicono che il settore dell'informazione è in crisi e che non c'è lavoro. Secondo lei è vero?", mi guardò negli occhi e sorrise: "Dammi del tu. Guarda, quando iniziai io negli anni Settanta dicevano le stesse cose, quindi vai tranquillo".
Fu la prima e unica volta che una persona adulta mi parlò del futuro senza menzionare concorsi pubblici o lauree in giurisprudenza. Un'overdose di fiducia direttamente nelle vene. Per lui io ero già un giornalista, non importava se avessi o meno il tesserino, ero già un suo collega e me lo scrisse sulla prima pagina del libro: "A Peppe, dal suo nuovo amico (e collega) Franco Di Mare".