“Mio zio è stato assassinato secondo le modalità della camorra. Lo hanno trovato nel suo letto, privo di vita. Il corpo martoriato dalle botte. Le ossa frantumate. Incaprettato come un animale destinato al macello. La bocca sigillata con nastro adesivo come a sottolineare il fatto che avesse parlato troppo”. Soffocato dalla sua protesi dentale, ritrovata in gola. A parlare è Isabella Formica, la nipote di don Cesare Boschin, il sacerdote ucciso la notte tra il 29 e il 30 marzo 1995 a Borgo Montello, frazione alle porte di Latina. Un omicidio ancora senza colpevoli, in cui si intrecciano gli interessi dei clan camorristici di Casal di Principe, che proprio in quella zona dell’Agro pontino hanno sversato per anni rifiuti pericolosi. “Mio zio dalla sua camera della canonica – racconta Isabella Formica a Fanpage.it – poteva vedere gli andirivieni notturni dei camion da e per la discarica dei veleni”.
Don Cesare e gli interessi del clan dei casalesi sulla discarica di Borgo Montello
Don Cesare Boschin nasce nel 1914 a Trebaseleghe, in provincia di Padova. Arriva a Borgo Montello negli anni ’50 e – come ricorda la nipote – “si sente un po’ in famiglia”. L’Agro pontino, infatti, è abitato da tanti operai veneti chiamati a bonificare i territori paludosi del Basso Lazio. “I fedeli lo amavano – sottolinea Formica – riponevano una grande fiducia in lui. Aveva aiutato un po’ tutti a trovare un lavoro”.
La tranquillità di quelle terre agricole, tuttavia, non è destinata a durare a lungo. Dal 1971, a Borgo Montello esiste una discarica di rifiuti che con gli anni crescerà sempre di più. E presto diventa l’obiettivo degli appetiti criminali della camorra. Come ha raccontato Carmine Schiavone, l’ex cassiere del clan dei casalesi diventato poi collaboratore di giustizia, già dagli anni ’80 l’organizzazione si interessa a Borgo Montello, Formia e gli altri paesi della provincia di Latina. I clan acquistano masserie e terreni dove iniziano a sversare rifiuti pericolosi di ogni tipo. Una “Terra dei fuochi” a poco più di 60 chilometri da Roma. “Un business più redditizio della droga – ha precisato Schiavone – possibile solo grazie agli intrecci tra politica e malavita”.
Gli abitanti di Borgo Montello, però, cominciano a lamentarsi degli odori nauseabondi che provengono dalla discarica. Sono allarmati anche dagli strani movimenti di camion che arrivano di notte in paese. Decidono quindi di formare un comitato che si ritrova proprio nella parrocchia Santissima Annunziata di don Cesare. Il sacerdote partecipa di rado alle riunioni. E’ anziano e un cancro ai polmoni lo costringe a passare gran parte del suo tempo in camera. Sebbene malato, non rinuncia a stare dalla parte dei suoi parrocchiani perché, dice, “i rifiuti inquinano non solo la terra ma le coscienze”.
Don Boschin inizia ad annotare sulle sue agende il via via sospetto di tutti quei camion. A guidare i mezzi sono spesso i ragazzi del posto che, in cambio di lauti compensi, non hanno scrupoli a sversare rifiuti tossici per conto dei camorristi. Il parroco, che quei giovani li conosce ad uno ad uno, si rende conto delle infiltrazioni mafiose a Borgo Montello e decide di informare un potente politico della Democrazia cristiana a Roma su quanto sta accadendo. Ma allo stesso tempo ha paura. “La sera in cui venne assassinato – continua Formica – aveva ricevuto la visita di don Mariano, il parroco che era stato mandato a sostituirlo. Al momento dei saluti, lo zio lo aveva pregato di tenergli compagnia, di non lasciarlo solo perché aveva paura di morire”.
Un omicidio in stile mafioso archiviato troppo in fretta
Verso le 9 del mattino del 30 marzo 1995, il corpo senza vita di don Cesare Boschin viene ritrovato da Franca Rosato, la perpetua che come ogni giorno è andata ad accudirlo. Davanti agli occhi della povera donna si presenta una scena orribile: il sacerdote di 81 anni è sdraiato sul suo letto, ha mani, piedi e collo legati. Un omicidio in stile mafioso. Il corpo è ricoperto di lividi. La mascella fratturata. Le percosse subite gli hanno fatto ingoiare la dentiera. “Morte per soffocamento” stabilirà l’autopsia.
“Chi lo ha ucciso ha voluto inscenare un furto mettendo a soqquadro i cassetti della sua stanza”, precisa Formica. Nella prima fase delle indagini, infatti, i carabinieri di Latina seguono esclusivamente la pista della rapina finita male, opera di qualche balordo. Vengono ascoltati alcuni tossicodipendenti e altri soggetti conosciuti per reati minori, ma senza che emerga alcun indiziato. C’è un punto che fa riflettere: il denaro di don Cesare non è stato sottratto. Al polso, inoltre, ha ancora l’orologio. A mancare, invece, sono le agendine nelle quali il parroco annota tutto, compresi gli strani traffici di camion che avvengono di notte a Borgo Montello.
Nessuno degli inquirenti mette in relazione l’omicidio del sacerdote con la discarica. Eppure, qualche elemento ci sarebbe, visto che proprio a ridosso del centro di smaltimento rifiuti vive Michele Coppola, di Casal di Principe, all'epoca già noto alla polizia per detenzione di armi da fuoco e per i suoi legami con i vertici del clan. Anche il successivo arresto di Coppola – avvenuto il 5 dicembre 1995 nell'ambito dell'inchiesta “Spartacus” – non spinge gli investigatori ad approfondire un eventuale coinvolgimento della camorra nella morte di don Cesare.
Il 2 maggio 1996 vengono iscritti nel registro degli indagati un sacerdote colombiano e un cittadino polacco senza fissa dimora, che il giorno del delitto aveva lasciato precipitosamente Borgo Montello. Il procedimento a loro carico, comunque, si conclude il 2 novembre 1999 con l'archiviazione. E sull'omicidio di don Cesare cala il silenzio. “Ha aiutato molta gente ma è stato dimenticato in fretta – si lamenta Formica – in pochi si sono fatti avanti per denunciare i traffici illeciti di rifiuti, credo per paura di finire come lui”. “Nei giorni seguenti al suo omicidio – prosegue la nipote del prete assassinato – ci sono state delle sparatorie a Borgo Montello. Colpi esplosi verso le abitazioni, suppongo per intimorire chi potesse aver visto o sentito qualcosa”. Le chiameremmo stese di camorra, oggi. “Oggi quel comitato contro l'inquinamento di quella zona è solo un vago ricordo – ha detto Claudio Gatto, un amico di don Cesare – la sua uccisione è stata determinante per la cessazione di tutte le attività delle persone che ne facevano parte”.
Don Ciotti fa riaprire le indagini nel 2009
Don Luigi Ciotti, il fondatore dell’associazione Libera, ritiene che i mandanti e i responsabili diretti dell’uccisione dell’anziano parroco “siano da cercare negli ambienti della criminalità organizzata e dell’ecomafia”. E nel 2009, durante un convegno in cui è presente anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, chiede la riapertura dell'inchiesta. “Chi sa deve parlare, perché a don Cesare, come alle altre vittime della criminalità organizzata, dobbiamo verità e giustizia”, tuona il presbitero e attivista contro le mafie. “Don Ciotti è stato uno dei pochi a farsi carico del caso di mio zio – afferma Formica – purtroppo anche quella volta le indagini sono state chiuse senza arrivare a scoprire nulla”.
Nel 2016, Stefano Maccioni, l’avvocato della famiglia Boschin, fa riaprire il caso. Nuovi elementi come le tracce sul nastro adesivo usato dal killer, le macchie di sangue su un asciugamano e il momento del decesso (che andrebbe spostato indietro di alcune ore), inducono la procura di Latina ad accogliere l’istanza del legale, assistito da un pool di specialisti. “Nel 2001, con un’ordinanza del tribunale di Latina, sono stati distrutti i reperti dell’omicidio”, dichiara l’avvocato Maccioni a Fanpage.it. “Abbiamo due impronte però non ci sono più i reperti per cui non è stato possibile realizzare l’esame del Dna”. E il caso della morte dell’anziano parroco viene di nuovo chiuso.
A nutrire dubbi sulle indagini della morte di don Cesare, infine, è la commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali. Nella relazione del dicembre 2017, inoltre, si legge che “le indicazioni, anche se parziali, fornite da alcuni testimoni su una eventuale pista investigativa riconducibile ai traffici illeciti di rifiuti non venne seguita fino in fondo”.
Il ricordo di Don Cesare, simbolo della lotta alla mafia
Chi ha ucciso don Cesare Boschin è ancora senza volto. Una cosa è certa: il parroco veneto è diventato un simbolo della difesa dell’ambiente contro la criminalità. A Borgo Montello, una piazza-giardino e l’oratorio portano il suo nome. Ma è con il suo coraggio che don Cesare ha lasciato il segno: nel piccolo centro laziale è sorto il presidio Sud Pontino di Libera, intitolato alla sua memoria. Un modo per continuare la sua battaglia contro gli interessi criminali dei clan camorristici. “Al di là della morte orribile di mio zio – conclude Formica – rimane il fatto che gli abitanti di Borgo Montello continuano a vivere accanto a rifiuti tossici. Tutte le famiglie hanno avuto chi la madre, chi il figlio o un parente ammalati e morti di cancro. E continuano a morire perché i rifiuti sono ancora là sotto”.