Chi è Totò Riina, la ‘belva’ di Cosa nostra che tenne in scacco l’Italia
Salvatore Riina nasce nel 1930, nella piccola Corleone, feudo del boss Michele Navarra a un'ora da Palermo, da una modesta famiglia di contadini. Quando è ancora ragazzino è testimone di una scena terrificante: suo padre Giovanni e il suo fratellino Francesco (7 anni) saltano in aria mentre cercano di estrarre della polvere da sparo da un ordigno inesploso, per rivenderla al mercato nero. Uno spettacolo spaventoso andato in scena sotto gli occhi di Salvatore e suo fratello Gaetano, che restano soli a occuparsi della famiglia. È in quell'episodio e nell'assassinio in una rissa del coetaneo Domenico Di Matteo, avvenuto quando Salvatore aveva compiuto 19 anni, che vanno ricercati i semi della spietatezza del futuro capo di ‘Cosa nostra'.
L'esordio criminale
All'epoca in cui era solo ‘Totò o curtu' – così soprannominato per la bassa statura – il giovane Riina comincia a fare dei ‘lavoretti' per conto di Luciano Liggio, alias ‘Lucianeddu', affiliato a Cosa nostra e fedelissimo del boss Navarra. Tra piccoli furti e ricettazione, Totò fa il suo esordio nel mondo criminale, anche se quell'omicidio di gioventù lo esalta al di sopra degli altri per ferocia e determinazione. Nell'amico Lucianeddu, di cui Totò diventa il braccio destro, arde l'ambizione del boss e quando il ruolo di gregario comincia ad andargli stretto, uccide Michele Navarra e i suoi uomini.
Gli anni successivi scorrono tra la cella del carcere, il processo e la successiva latitanza, ma nondimeno il potere di Liggio cresce e ha bisogno di consolidare le sue basi. Nel 1970 a Palermo ci sono le elezioni, è l'occasione per piazzare Vito Ciancimino, uomo di Liggio e Riina, da sempre riferimento politico dei Corleonesi all'interno della Democrazia Cristiana. Con la sua ascesa alla guida del consiglio comunale Riina e Liggio si assicurano il monopolio sugli appalti pubblici del capoluogo siciliano. In quegli anni la cosca di Liggio riesce ad appropriarsi anche del traffico di droga con gli Stati Uniti, un tempo appannaggio dei Marsigliesi.
Ogni ostacolo alla conquista del potere sembra cadere come un racco secco e quando le indagini del procuratore di Palermo Pietro Scaglione cominciano a minacciare le loro attività, i due decidono di ammazzarlo. Il giudice viene trovato cadavere nella sua auto fuori dal cimitero dove era andato a visitare la tomba della moglie. Quello di Scaglione è il primo atto dell'attacco allo Stato.
I Corleonesi al potere
Mentre una serie di sequestri a scopo di estorsione e il contrabbando di sigarette, avviato con i Nuvoletta della camorra napoletana, rimpinguano le casse della cosca di Liggio, questi progetta di liberarsi di Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che fino ad allora avevano condiviso con lui il controllo degli affari illeciti a Palermo. Nel 1974 – l'hanno in cui Totò sposa in clandestinità Ninetta Bagarella, sorella Leoluca – l'arresto di Lucianeddu fa di Riina il reggente della fazione. Al capo di Cosa nostra, ora, servono nuovi ganci nel mondo della politica. Nel 1976 il sindaco di Palermo, Vito Ciancimino abbandona la corrente fanfaniana per aderire a quella guidata da Giulio Andreotti. L'accordo viene suggellato dalla formale adesione alla corrente attraverso l'onorevole Salvo Lima, nuovo referente politico dei Corleonesi.
Nel 1978 Riina riesce a ottenere l'espulsione di Badalamenti dalla ‘commissione' – l'organo di governo di Cosa nostra – accusandolo di aver ordinato l'uccisione di un uomo dei Corleonesi, Francesco Madonia. I tempi sono maturi per un cambio di leadership e la ‘belva' Riina, sa bene che i vecchi poteri sono in decadenza. Badalamenti si rifugia in Brasile dove continua a gestire il traffico di droga con l'Italia e gli Stati Uniti. Bisogna imprimere l'ultima, dura, sferzata. Con gli omicidi di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, il boss dà il via alla seconda guerra di mafia. Un'ecatombe che lascia sul campo 200 morti e consacra Totò Riina capo di Cosa nostra.
Dal massacro del procuratore Scaglione, nel 1971, lo Stato non aveva più intralciato le attività di Cosa nostra e di fatto alcune indagini erano state interrotte dalla morte del giudice, proprio come volevano i Corleonesi. Nel 1980, però, la magistratura passa al contrattacco: il giudice Rocco Chinnici dà vita al primo ‘pool antimafia', una squadra di magistrati che indaga solo su reati di matrice mafiosa. Un progetto senza precedenti che il giudice paga con la vita lasciando la guida del pool nelle mani di Nino Caponnetto. Due anni dopo vengono uccisi il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Intanto il pool prepara un'operazione senza precedenti: l'arresto di oltre 600 affiliati a Cosa nostra.
Il maxi-processo
Nel carcere dell'Ucciardone di Palermo viene costruita un'aula in grado di contenere l'enorme numero di imputati e testimoni di quello che chiameranno il maxi-processo. I 600 imputati verranno giudicati per i reati di omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione e associazione di tipo mafioso, ricostruiti grazie alla testimonianza del superpentito Tommaso Buscetta, boss della fazione perdente della seconda guerra di mafia.
Arrestato nel 1983 in Brasile, dove era latitante, Buscetta aveva accettato di collaborare con la giustizia in cambio di agevolazioni e sconti di pena. ‘Don Masino' è il primo personaggio di spicco della mafia a introdurre i magistrati nella struttura e negli affari di Cosa nostra. Non quelli che riguardano il mondo della politica, però, che rimane l'unico argomento tabù della collaborazione. Il suo unico referente, il giudice al quale affida le sue confessioni, è Giovanni Falcone che diventa così bersaglio della vendetta di Cosa nostra. Contro di lui si indirizza l'ira della mafia che non è riuscita a impedire e ai suoi uomini di collaborare con la giustizia.
La risposta: ‘Falcone e Borsellino devono morire'
Sulla testa di Giovanni Falcone pende una condanna a morte sancita formalmente dalla Commissione di Riina. Il giudice muore insieme a sua moglie Francesca Morvillo, agli uomini della scorta Vito Schifani, Antonino Montinaro e Rocco Dicillo in un attentato al tritolo sull'autostrada A 29, allo svincolo con Capaci. È il 23 maggio 1993. Due mesi dopo in via D'Amelio, a Palermo, il giudice Paolo Borsellino muore insieme agli uomini e alle donne della sua scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). Il pool antimafia è stato annientato come si fa come una cosca rivale e con il suo omicidio Riina ordina l'assassinio di tutti i parenti dei pentiti fino al ventesimo grado di parentela, compresi i bambini di sei anni. "Di bambini a Sarajevo ne muoiono tanti – dice il boss -perché ci dobbiamo preoccupare noi di Corleone?"
L'arresto: la ‘belva' dietro le sbarre
Latitante dal 1969, Totò Riina viene arrestato 15 gennaio 1993 a Palermo, davanti alla villa in via Bernini in cui viveva con la moglie Ninetta e i quattro figli. A condurlo via in manette è Sergio de Caprio, il capitano ‘Ultimo' a capo del Crimor. Riina è stato tradito dal suo autista Baldassarre (Balduccio) Di Maggio, che aveva scelto di rivoltarsi contro Cosa nostra e di collaborare. Dal 1992 cominciano i processi per tutti i delitti di cui il boss della cupola di Palermo si è macchiato. Ed è sempre ergastolo: per l'omicidio del generale Dalla Chiesa, per le stragi di via D'Amelio e Capaci.
La ‘trattativa'
Riina sale alla sbarra anche per il processo sulla cosiddetta "trattativa Stato-Mafia'. Nel 1992 il vicecomandante dei Ros, Mario Mori, avrebbe incontrato l'allora sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, per proporre un cessate il fuoco in virtù del quale sarebbero state accondiscese alcune richieste di Cosa nostra. Secondo la ricostruzione dei fatti, Totò Riina avrebbe fatto pervenire a Mori il cosiddetto ‘papello', il documento contenente tutte le richieste tra cui avrebbero figurato anche la cancellazione della legge sui pentiti, l'alleggerimento del 41 bis e la revisione del maxi-processo. Una copia del papeddu è stata consegnata ai magistrati da Massimo Ciancimino, figlio di Vito. Tra i rinviati a giudizio al processo viene condannato a 7 anni di carcere l'ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri. Secondo la sentenza confermata dalla Cassazione basata sulla testimonianza di diversi pentiti di mafia, tra cui Gaspare Spatuzza, per quasi vent'anni avrebbe fatto da garante per gli accordi tra Cosa nostra e ambienti politici di Forza Italia.
L'epilogo
L'ex boss è morto all'età di 87 anni, mentre scontava la sua condanna al 41 bis. Nella tomba si porta tutti i segreti della ‘Notte della Repubblica'.