Filippo Turetta, 22 anni, è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin. Gino, papà della ragazza, ha definito questa sentenza ‘una sconfitta per tutti‘, che chiaramente non restituisce Giulia ai propri cari e condanna al carcere il suo giovane assassino.
Una condanna pesante, come quella emessa solo la settimana scorsa nei confronti di un altro femminicida, Alessandro Impagnatiello. Una condanna che però, ritengo, debba essere letta anche come un segno di cambiamento sociale nei confronti di quei reati che colpiscono le donne. Una condanna, di cui forse avevamo bisogno da tempo.
Che veicola anche un messaggio importante, non solo in un’ottica di repressione, ma di riconoscimento della gravità del danno arrecato. Che restituisce, per quanto possibile, giustizia e dignità a Giulia.
Indice forse di un cambiamento, anche culturale, come auspicato da Gino Cecchettin, che vede il nostro sistema giuridico, con una inevitabile ripercussione sul contesto sociale, prendere distanza e una severa posizione nei confronti di questo fenomeno.
Riconosciamo ormai abbastanza chiaramente la radice culturale del fenomeno, una cultura che continua a sostenere uno squilibrio di potere tra uomini e donne in tutte le sfere di vita. Un potere che, soprattutto all’interno delle relazioni di intimità, alcuni uomini rivendicano ancora anche attraverso l’uso della forza e della violenza. Attraverso condotte che spesso vengono socialmente legittimate o la cui gravità spesso viene minimizzata o giustificata.
La cultura da cui proveniamo e che ci ha condizionati nella strutturazione della nostra identità e nel modo in cui entriamo in relazione con gli altri è una cultura, a cui corrispondeva un orientamento giuridico che per secoli ha garantito l’impunità a quegli uomini che ponevano in essere reati che oggi definiremmo di genere (maltrattamenti, violenza sessuale, stalking, femminicidio) e che in qualche modo li legittimava.
La violenza maschile contro le donne per gran parte della nostra storia è stata considerata indispensabile per garantire l’ordine familiare (che consisteva in un sistema verticistico al cui capo vi era il patriarca) e quindi anche sociale. Gli uomini pertanto, fossero essi padri o mariti, erano legittimati a utilizzare metodi di correzione, anche violenti, per ottenere l’obbedienza all’interno del contesto familiare ed erano giustificati qualora avessero deciso di uccidere una donna, fosse moglie, sorella o madre, che aveva, con le proprie condotte (anche solo presunte) disonorato il buon nome della famiglia.
Basti considerare che fino agli anni cinquanta era possibile richiedere la separazione legale dal coniuge solo se le violenze e le sevizie arrivavano “agli eccessi”, prevedendo pertanto e legittimandola conseguentemente, l’uso della violenza in quelle che erano le normali dinamiche di relazione tra coniugi. È innegabile la correlazione che questo possa aver avuto nella costruzione di un impianto culturale che tale violenza la normalizza, e che ancora oggi ci condiziona.
Basti pensare che i dati recenti parlano di un andamento stabile dei casi di femminicidio a fronte di un decremento significativo dei casi di omicidi generici e che la maggior parte dei reati di genere vengono commessi da uomini che hanno o hanno avuto una relazione di intimità con la vittima.
Nel nostro sistema giuridico l’impunità per quello che oggi definiremmo un femminicidio era garantita dalla legge sul delitto d’onore, rimasto in vigore fino al 1981 e che prevedeva un massimo di sette anni di pena per chi uccideva la moglie, la figlia o la sorella rilevandone (o supponendone) “la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa arrecata all’onor suo o della famiglia”.
Il delitto d’onore era un reato a sé stante rispetto al reato di omicidio (per il quale già nel Codice Rocco era prevista la pena dell’ergastolo) le cui pene, se riferite all’omicidio di donne, spesso erano sensibilmente attenuate per il riconoscimento delle attenuanti, due in particolar modo: l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale (la causa d’onore o la gelosia), e l’aver agito per stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui.
Siamo così lontani dalle motivazioni addotte dallo stesso Turetta per spiegare cosa lo avrebbe spinto a sentirsi legittimato nella sua scelta di uccidere Giulia? E prima ancora a controllarla in modo ossessivo limitandone la libertà personale? “Iniziai a pensare che fosse ingiusto che io non ce la facessi più a fare niente, stessi molto male e fossi solo e lei invece di aiutarmi e starmi vicino si stesse allontanando sempre di più”.
È passato qualche decennio dall’abrogazione del delitto d’onore, ma le condanne per reati di questo tipo sono continuate ad essere lievi, proprio per il riconoscimento di attenuanti che venivano individuate proprio in virtù della matrice culturale, anche attraverso una responsabilizzazione della vittima che, ancora oggi tende ad essere rappresentata e narrata.
Avremmo tutti voluto che Filippo scegliesse di non uccidere Giulia, ma ora che lo ha fatto, anche la sua condanna all’ergastolo può aiutarci a cambiare le cose.