C'è un motivo se in tutto l’arco politico in pochi si sono degnati di riconoscere la responsabilità della crisi climatica e del consumo di suolo nell’alluvione in Emilia-Romagna, ed è che, per quanto dissennato e criminale possa risultare, bruciare idrocarburi e cementificare nuovo terreno oggi paga, e pure tanto.
Nel 2022 le cinque maggiori multinazionali di gas e petrolio hanno registrato profitti da capogiro: in totale 200 miliardi di dollari, di cui 20 soltanto in Italia. Non bastasse, il nostro paese è ancora oggi il sesto al mondo per investimenti nel settore fossile, e a giudicare dal nuovo Piano Mattei annunciato dal governo, non si candida certo a essere un paladino della transizione energetica (sto usando un eufemismo).
E se con una mano puntelliamo il sistema fossile responsabile delle piogge torrenziali che hanno contribuito al disastro delle scorse settimane, con l’altra continuiamo a edificare a tutto spiano. L’ultimo rapporto ISPRA ha rivelato che il tasso di consumo di suolo non è mai stato tanto alto come negli ultimi anni, al punto che in media le nuove coperture artificiali si mangiano 19 ettari di terreno naturale ogni giorno. Un trend che pare destinato ad aumentare, tanto che si prevede che nel 2023 il settore costruzioni cresca di un altro 6,3%.
Per arginare disastri come quello che ha colpito l’Emilia Romagna sarà fondamentale non solo ridurre le emissioni serra che stanno esacerbando la crisi climatica, ma anche ridurre il peso del settore edilizio nella nostra economia. Come vedremo fra poco, infatti, ogni metro quadrato di territorio coperto da nuove costruzioni rende il nostro territorio più vulnerabile alle alluvioni.
Le due facce della responsabilità antropica
All’indomani dell’alluvione, come spesso accade, è partita una gara per individuare un responsabile a cui imputare la tragedia: c’è chi ha dato la colpa alla mancata manutenzione degli argini dei fiumi, chi all’impermeabilizzazione dei terreni, chi alla crisi climatica, qualcuno ha tirato in ballo la subsidenza del terreno, altri l’alta marea e i disboscamenti. La realtà è che, in varia misura, tutti questi elementi hanno contribuito a peggiorare la situazione.
La cosa interessante, però, è che di fronte questa combinazione di elementi molti politici si sono premurati di minimizzare quelli di chiara responsabilità antropica, a destra come a sinistra: il ritornello più abusato insiste su come si debba essere cauti nell’imputare al riscaldamento globale le piogge massicce e concentrate come quelle delle prime due settimane di maggio, perché se è vero che l’incremento delle temperature globali comporta un aumento della frequenza e dell’intensità dei fenomeni meteorologici estremi, non è possibile tracciare un nesso diretto tra questa specifica pioggia e la crisi climatica. Argomentazioni simili venivano cavate di tasca all’indomani della tragedia della Marmolada, salvo poi essere sostituite da un imbarazzato silenzio qualche mese dopo, quando la responsabilità antropica nel crollo di quel seracco di ghiaccio è stata confermata.
Sostenere che non sia possibile quantificare il ruolo del cambiamento climatico nei disastri ambientali equivale a dire che l’acqua di una pentola evaporerebbe anche se qualcuno non ci accendesse una fiammella sotto: tecnicamente è un’affermazione vera, ma nei fatti è una minimizzazione capziosa e strumentale di un problema che ha responsabilità evidenti. E lo stesso discorso vale per chi dice che le alluvioni disastrose ci sono sempre state, o che le zone colpite sono a rischio da sempre, o che si tratta di mancata manutenzione di argini e invasi e non di un problema sistemico che bisogna affrontare in modo radicale.
Perché è questo ciò che spaventa chi oggi fa enormi profitti cementificando e vendendo idrocarburi: per arginare in modo effettivo gli enormi danni che questi settori producono è necessario adottare misure che impediranno alle aziende di macinare profitti in modo sregolato. Se davvero venisse avviata una transizione ecologica effettiva, non sarebbero più in grado di registrare profitti di questo tipo: è naturale che facciano di tutto per minimizzare il problema; come è naturale che in questi giorni non si parli d’altro che di “ripartenza” e “ricostruzione”.
Ma se è vero che è urgente intervenire per rimettere in piedi un territorio martoriato e ridare una casa a chi l’ha perduta, è anche vero che è fondamentale farlo tenendo conto delle vulnerabilità che caratterizzano quelle zone; a maggior ragione perché gli eventi meteorologici estremi nei prossimi anni saranno sempre meno controllabili.
Illusione di controllo e cementificazione
Prima di cementificare il 8,9% del proprio suolo (sempre dati ISPRA), l’Emilia Romagna era una regione in buona parte coperta da paludi. Questo era vero soprattutto per il territorio romagnolo, e in particolare per la zona in cui ora sorge Ravenna. Se oggi questa regione è una delle più ricche e antropizzate del paese è per via delle bonifiche avviate dagli Estensi a partire dal XIX secolo, e grazie alle centinaia di contadini e braccianti che hanno fisicamente trasportato nuova terra nella zona (i cosiddetti “scarriolanti”). Da allora l’intervento umano in Emilia Romagna non si è mai arrestato, tanto che oggi la regione ha un tasso di cementificazione quasi doppio alla media europea.
Ogni volta che l’essere umano modifica radicalmente un territorio, la trasformazione comporta un aumento dei rischi e una maggiore vulnerabilità a tutti quegli eventi su cui non ha controllo. Il problema è che questa mancanza di controllo non ci risulta così palese come dovrebbe. L’illusione di poter controllare un territorio antropizzato e metterlo al riparto da eventi climatici estremi è una delle distorsioni cognitive più pericolose, ed è il motivo per cui oggi l’Emilia Romagna è una delle regioni più esposte, con ben 4316 km quadrati di aree a pericolosità idraulica e rischio alluvionale.
“Tutti noi sappiamo che tra un suolo libero e uno cementificato la quantità d’acqua che scorre violentemente in superficie aumenta di oltre cinque volte”, ha scritto in proposito Paolo Pileri, ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, notando: “La provincia di Ravenna è stata la seconda provincia regionale per consumo di suolo nel 2020-2021 (più 114 ettari, pari al 17,3% del consumo regionale) con un consumo pro capite altissimo (2,95 metri quadrati per abitante all’anno); è quarta per suolo impermeabilizzato pro capite (488,6 m²/ab)”.
Per contrastare il consumo di suolo servirebbe una legge nazionale, che al momento però non è nemmeno all’orizzonte. Una delle poche regioni a ideare una misura specifica per rallentare lo sfruttamento del suolo è stata proprio l’Emilia Romagna, nel 2017, con una legge regionale che è stata oggetto di feroci e comprensibili critiche. La legge 24 infatti stabilisce che il consumo di suolo annuo non possa essere superiore al 3% del territorio già urbanizzato, e l’obiettivo di arrivare a un consumo zero entro il 2050. Peccato che questi limiti siano stati spesso ignorati, o aggirati, al punto che dalla sua entrata in vigore ben 20 comuni hanno superato la soglia di cementificazione consentita.
La realtà è che, per quanto possa sembrare un obiettivo ambizioso, fissare una riduzione programmata del consumo di suolo non è sufficiente: c’è bisogno di ridurre la cementificazione esistente, così da recuperare una porzione consistente delle aree impermeabilizzate.
Depavimentazione, questa sconosciuta
L’abbiamo detto più volte: la lotta alla crisi climatica non è soltanto una sfida economica e politica, è anche una sfida culturale. La nostra idea di progresso è così strettamente incardinata al concetto di crescita e di accumulo che ci risulta difficile accettare l’idea che un miglioramento delle nostre condizioni possa essere slegato da un aumento dei consumi e da nuove costruzioni. È normale dunque che ci risulti difficile comprendere che, per scongiurare disastri come quello delle ultime settimane, non si debba tanto ricorrere a interventi tecnologici o ingegneristici, quanto a una pianificazione diversa della gestione territoriale. Certo, le opere idrauliche preventive, come i bacini di espansione, hanno un ruolo fondamentale nel contenimento di eventi estremi, dal momento che consentono di ridurre la portata di un fiume durante una piena, ma altrettanto importanti sono la riqualificazione fluviale, che può prevedere un ampliamento dell’alveo e un ripristino della vegetazione ripariale acquatica, e la depavimentazione, ossia di sostituzione dei tratti cementificati o asfaltati con terra battuta o terreni erbosi (ad esempio nei parcheggi e nelle piazze).
Queste opere di rinaturazione del territorio non hanno soltanto, come alcuni insistono a dire, una valenza etica ed estetica, hanno innanzitutto un valore pratico, legato al fatto che un territorio non impermeabilizzato consente un migliore drenaggio delle acque, un ricarico più rapido delle falde acquifere e un abbattimento delle temperature nelle stagioni calde. Parliamo di soluzioni attuabili nell’immediato, che comportano vantaggi sia dal punto di vista ecosistemico che economico. Eppure, nel DDL Bilancio approvato per il 2023, alla tutela del suolo e dell’assetto idrogeologico vengono assegnati soltanto 600 milioni di euro, quando ne servirebbero 360 soltanto per il progetto di rinaturazione del Po.
I costi di questi interventi sarebbero tutt’altro che proibitivi, basti pensare che il primo bilancio dei danni di questa alluvione già si assesta intorno ai 5 miliardi di euro. Secondo Ispra le opere di messa in sicurezza del territorio italiano richiederebbero 26 miliardi di euro; negli ultimi 20 anni, però, ne sono stati stanziati soltanto 7.
Ancora una volta, la situazione è chiara: le soluzioni esistono, i progetti pure, manca la volontà politica di metterli in atto; e ancora prima manca un passaggio fondamentale, e cioè riconoscere le responsabilità del settore fossile e di quello edile in catastrofi come quella abbia sotto gli occhi oggi.