È di questi giorni la sentenza della Corte di Cassazione che ha annullato la condanna all’ergastolo di primo grado confermata in Appello, ad Antonio De Pace, con richiesta di valutazioni delle attenuanti generiche.
La sentenza riguarda il femminicidio di Lorena Quaranta, uccisa il 31 marzo 2020 dal suo fidanzato. Lorena era prossima alla laurea in Medicina e Chirurgia, appassionata del suo lavoro che nei post social definiva “il mio posto”. De Pace, ormai ex infermiere, “aveva un complesso di inferiorità nei confronti di mia figlia”, dichiara adesso il padre di Lorena. Quella sera, nella loro abitazione, De Pace ha colpito violentemente Lorena, tanto da romperle i denti e poi l’ha strangolata. Prima di chiamare i carabinieri per consegnarsi avrebbe tentato il suicidio invano, nonostante di professione facesse l’infermiere professionista.
Condannato all’ergastolo nei primi due gradi di giudizio, ora la Cassazione chiede di valutare il contesto in cui si è consumato il femminicidio per comprendere come e quanto il disagio generato dall’emergenza pandemica e dalle conseguenti restrizioni abbiano determinato lo “stato d’ansia” che, secondo De Pace l’ha portato alla commissione del reato.
La sentenza sembra essere sbagliata e pericolosa, volta a indagare una causa giustificativa alla base dell’agito dell’uomo, negando pertanto la matrice culturale del fenomeno e indagando, al di fuori della responsabilità personale le cause che avrebbero potuto costituire il movente del femminicidio.
Il timore è che questa sentenza sottenda una profonda ignoranza in merito a quello che è un fenomeno la cui matrice è stata da tempo definita. La violenza maschile contro le donne è rappresentata dalla commissione di qualsiasi atto che provochi o possa provocare una sofferenza (sia essa di natura fisica, sessuale, psicologica o economica) a una donna in quanto tale ed è la manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi. L’uomo che sceglie di agire una o più forme di violenza nei confronti di una donna lo fa con l’unico scopo di esercitare nei suoi confronti un potere che gli è stato storicamente legittimato e garantito, imponendo la propria volontà, anche con la forza, anche con la violenza, fino a compiere azioni che possono risultare letali.
Scegliere di indagare cause esterne alle dinamiche di relazione nel tentativo di individuare un movente, significa disconoscere tutto ciò e non solo, equivale ad avere un atteggiamento collusivo con chi la violenza l’ha agita.
Chi lavora con le donne vittime di violenza o con gli autori sa che tipicamente gli uomini maltrattanti tendono a negare o a minimizzare gli agiti che pongono in essere e quelle che sono le conseguenze che essi producono, proiettando all’esterno la responsabilità che quegli agiti sottende. Spesso cercando giustificazioni esterne (il lavoro perso, lo stress per una situazione contingente – appunto -, l’uso di sostanze …) o responsabilizzando la donna stessa della violenza che subisce.
Le donne riferiscono abitualmente di situazioni nel corso delle quali la violenza sia acuita e diventata brutale, nella circostanza in cui, ad esempio, di fronte ad un’infondata accusa mossa dal maltrattante la donna si è difesa giustificandosi o, allo stesso modo perché è rimasta silente (per paura delle conseguenze).
Chi lavora con la violenza maschile contro le donne sa che questo atteggiamento del maltrattante è tipico, è manipolatorio e subdolo e che non c’è nessuna cosa che la vittima possa fare o non fare per evitare la violenza, perché la violenza è sempre una scelta di chi la agisce.
Nella maggior parte dei casi una scelta lucida e premeditata con freddezza e capacità organizzative (va ricordato che la patologia psichiatrica viene riscontrata all’incirca nell’11% dei casi totali).
In questa irrinunciabile attribuzione di responsabilità consta, anche, l’approccio di genere, imprescindibile per lavorare efficacemente a tutela delle vittime della violenza maschile, siano esse donne o minori.
Al contrario, cercare cause esterne che possano sottendere o giustificare azioni di questo tipo produce contesti che risultano rivittimizzanti per le vittime, perché inevitabilmente la violenza viene minimizzata o perché le vittime sono addirittura responsabilizzate.
Ecco perché questa sentenza appare pericolosa oltre che errata, perché collusiva con una dinamica maltrattante e responsabilizzante nei confronti di una donna che per azione di quella violenza oggi non c’è più. Per una donna, Lorena, alla quale, attraverso quella violenza, sono stati volutamente sottratti i sogni e il futuro.
Da parte di un uomo, il suo compagno che anche a fronte di una situazione stressante, avrebbe potuto scegliere di reagire in qualsiasi altro modo.