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Cartelle pazze di Equitalia: una su cinque. Altro che antipolitica

Una cartella su cinque è l’operazione “creativa” di un debito che non esiste. Senza contare (poiché non rientrano nelle statistiche) tutti coloro che in buona fede o per ignoranza hanno pagato senza fare ricorso, non accorgendosi dell’errore in quella richiesta immotivata. Non è un semplice errore: è un errore che mina la fiducia su cui si basa la democrazia.
A cura di Giulio Cavalli
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Ieri Ernesto Maria Ruffini, l'amministratore delegato della tanto discussa Equitalia, è stato audito in Commissione Bilancio al Senato e ha portato i numeri della riscossione dei tributi negli ultimi 15 anni. Numeri che lasciano piuttosto perplessi se si pensa che, secondo Ruffini, solo il cinque per cento dei 1.058 miliardi di euro di crediti sono "effettivamente lavorabili", ovvero esigibili e recuperabili: se l'Italia fosse una normale azienda con il dovere di riuscire a stare sul mercato potremmo dire banalmente che il bilancio dei crediti è, a dir poco, farlocco. 

Ma c'è un altro dato che merita attenzione: negli ultimi 15 anni (sono i dati di Equitalia) il 20,5% di quei circa mille miliardi (parliamo di qualcosa come più di 200 miliardi di euro) non saranno mai recuperati perché sono cartelle esattoriali false. Sì false: dice Ruffini che "sono stati annullati dagli stessi enti creditoria quanto ritenuti indebiti a seguito di provvedimenti di autotutela da parte degli stessi enti o di decisioni dell'autorità giudiziaria." Una cartella su cinque è l'operazione "creativa" di un debito che non esiste. Senza contare (poiché non rientrano nelle statistiche) tutti coloro che in buona fede o per ignoranza hanno pagato senza fare ricorso, non accorgendosi dell'errore in quella richiesta immotivata.

Le "cartelle pazze" sono una costante della discussione politica e dell'analisi del bilancio di Stato e anche Equitalia non si può dire che sia messa meglio dal punto di vista del sentire comune giacché sono stati in molti i leader politici (che siano sindaci, parlamentari o addirittura leader di partito) che ne hanno chiesto la chiusura accusandola per le modalità "crudeli e inumane" (Salvini dixit) con cui si avventa sui cittadini debitori. Ma non è questo il punto, ora: Ruffini (consapevole di essere in una posizione scomoda e certamente non amata dagli italiani) ha voluto, più o meno strumentalmente, puntare il dito sull'inefficienza di uno Stato che non riesce ad essere leale nel calcolo dei propri crediti verso i suoi cittadini. La notizia, anche se scivolerà probabilmente nelle zone basse di siti e quotidiani, si inserisce nella linea delle pessime notizie per la credibilità dello Stato e della politica: esigere un debito dai propri cittadini significa comunque aprire una controversia e, in caso di scontro, è lo Stato che dovrebbe avere l'autorità e la credibilità di indossare i panni del "forte" poiché è labile il confine tra la pretesa di ciò che gli spetta e il sopruso.

La questione economica (e in generale tutto ciò che ruota intorno all'odore dei soldi) in periodi di recessione e diffuse difficoltà economiche per molte famiglie come quello che stiamo attraversando assume una grande rilevanza politica: la disperazione porta inevitabilmente a stringere i lacci della fiducia verso chiunque abbia un'interazione economica con noi e lo stato italiano è (volente o nolente) il socio di maggioranza di imprenditori e liberi professionisti e la spesa più ingente per i lavoratori dipendenti. Non è un caso che negli ultimi anni (e ancora di più negli ultimi mesi) molti dei temi politici siano stati riportati banalmente ai loro costi: il pacifismo è diventato "pop" rendendo pubbliche le spese militari, l'uguaglianza è un'esigenza che si è riaccesa sugli stipendi ritenuti esagerati della nostra classe dirigente, l'ambientalismo si è rinverdito grazie anche all'indignazione per i prezzi delle "grandi opere" e il successo di alcune esperienze politiche è stato costruito sui "tagli" alle spese inutili oppure ai proprio stipendi. Oggi il soldo è politica anche nella narrazione.

Ed è per questo che per una "buona politica" (per prendere in prestito le parole di Matteo Renzi) oggi è necessario anche ripartire dalla ricostruzione di un'etica economica: esigere crediti non esigibili è il modo peggiore in cui lo Stato possa fare il "giudice economico" su quanto gli è dovuto. Qui non è il semplice sbaglio di un funzionario o la "furbata" di chi ci prova: siamo di fronte ad un errore che mina il rapporto fiducia stesso sui si poggia la democrazia. E questi numeri sono un allarme.

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche "Le uova nel paniere" e "L'eroe del giorno" e realizzando il format video "RadioMafiopoli". Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.
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