Carceri: è morto il padre che non ha potuto vedere il figlio detenuto
La funzione rieducativa e l'umanizzazione della pena sono princìpi sanciti dalla Costituzione. Parole al vento, nell'Italia pluricondannata per violazioni dei diritti umani. E può capitare, in questo Paese, che anche l'ultimo abbraccio tra un detenuto e un suo caro venga negato. Come nel caso di Antonio Annunziata, che non è riuscito a vedere il padre per l'ultima volta.
Il giovane è rimasto dietro le sbarre del carcere di Sant'Angelo dei Lombardi (Avellino) mentre il papà, Carmine, moriva. Il tribunale di sorveglianza non gli ha concesso di recarsi al capezzale del padre. Aveva un tumore al fegato in fase terminale. E aveva tre figli in carcere, due dei quali per reati non gravi: furti, per lo più. Dal suo letto, qualche giorno fa, il signor Carmine ha voluto fare un appello perché "mezz'ora, un quarto d'ora, portatemi almeno Antonio, se la legge è uguale per tutti, se questa si chiama giustizia". Ma non è stato ascoltato. Dei tre figli in galera, è riuscito a vederne solo uno. La visita al padre è stata vietata anche a Vincenzo, il figlio minore, agli arresti domiciliari per un furto, a poche centinaia di metri dalla casa del papà.
Le istanze presentate sono tre, racconta l'avvocato. Due per Antonio: una quando era detenuto nel carcere di Poggioreale e l'altra al tribunale di sorveglianza di Avellino, dopo il trasferimento nella casa circondariale di Sant'Angelo dei Lombardi. Una sola istanza, invece, per Vincenzo. Oggi, i figli hanno partecipato ai funerali. Ma è una magra consolazione. Una beffa, la definisce l'avvocato: "E' stato loro negato l'ultimo incontro con il padre, ma si concede di andare ai funerali. Credo che occorra una normativa più stringente per evitare che ci siano decisioni difformi per casi uguali – afferma – La pena dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato, ma dopo un affronto di questo genere, con uno Stato che nega a un detenuto di andare al capezzale del padre morente nonostante abbia commesso reati di scarso allarme sociale, come può non incancrenirsi il rapporto tra lo Stato e il cittadino?". L'avvocato Arienzo racconta poi di un altro ristretto, suo assistito, di tutt'altro genere: un boss detenuto in regime di 41bis. A lui, nel 2012, viene concesso di lasciare il carcere duro per fare visita al fratello gravemente ammalato. Il contrasto è stridente e amarissimo.
Ma questa situazione è stata una tragedia annunciata e non un caso isolato, racconta Dora, la sorella di Carmine Annunziata: "Ma cosa aspettano, che mio fratello muoia? – domandava durante un'intervista, qualche giorno fa – Anch'io ho vissuto il carcere e anche a me è successa la stessa cosa. Mio padre è morto e io non l'ho visto". E così ora Antonio dietro le sbarre e Vincenzo a cento metri di distanza non hanno potuto guardare negli occhi il padre per l'ultima volta. "In questi contesti – spiega preoccupato Pietro Ioia, presidente dell'associazione ex detenuti napoletani- Con una notizia del genere, si può arrivare anche a suicidarsi. A me, nel 2005, è capitata la stessa cosa: non sono riuscito a fare visita a mia madre sul letto di morte". All'epoca, continua Ioia, "ebbi una reazione violenta e disperata: iniziai a dare di matto in cella e solo dopo un forte tranquillante riuscii a calmarmi. Perché non si interviene prima? Perché tanti ritardi?".
Nel caso dei fratelli Annunziata, non si conoscono ancora le motivazioni che hanno portato al rigetto delle istanze. Più in generale, il problema dei permessi è molto sentito, spesso solca le vite dei detenuti e delle loro famiglie in maniera indelebile. "E' necessaria una premessa: il rispetto dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura che decide in discrezionalità. Tuttavia, spesso ci vengono segnalate negazioni di permessi per i detenuti – spiega Mario Barone, presidente di Antigone Campania e membro dell'Osservatorio sulle condizioni di detenzione – che hanno diritto a mantenere, in base all'ordinamento penitenziario, un rapporto affettivo con le famiglie di origine". Un rapporto che deve essere mantenuto, a volte intensificato, in momenti drammatici come una grave malattia di un genitore o la sua morte. "Garantire questi rapporti – afferma Barone – È un altro modo di declinare la rieducazione. Lo Stato non deve aggiungere un supplemento di pena, ma l'obiettivo sarebbe quello di reinserire la persona nella società". Sarebbe.