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Bullismo, Fondazione Carolina Picchio sul suicidio di Senigallia: “Bisogna fare di più, ascoltare chi soffre”

Dopo la morte del 15enne di Senigallia, Fanpage.it ha parlato con Ivano Zoppi, segretario generale della Fondazione nata dall’impegno del papà di Carolina Picchio. La 14enne nel 2013 decise di gettarsi dalla finestra della sua camera perché non ce la faceva più a sopportare gli insulti e l’umiliazione in rete. Il suo è stato il primo caso di cyberbullismo riconosciuto in Italia.
A cura di Eleonora Panseri
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Carolina Picchio e Ivano Zoppi, segretario generale di Fondazione Carolina
Carolina Picchio e Ivano Zoppi, segretario generale di Fondazione Carolina

Aveva raccontato alla famiglia di aver subito frequenti atti di bullismo il ragazzo di 15 anni che lunedì 14 ottobre ha deciso di rubare la pistola del padre vigile urbano e togliersi la vita in un casale abbandonato alla periferia di Senigallia. I suoi genitori sono convinti che le continue vessazioni di un gruppo di compagni abbiano influito sul suicidio del figlio.

Per parlare del tema e capire cosa fare in situazioni simili Fanpage.it ha intervistato Ivano Zoppi, segretario generale della Fondazione Carolina, nata dall'impegno di Paolo Picchio, il papà di Carolina.

Nel 2013 la ragazza decise a soli 14 anni di gettarsi dalla finestra della sua camera perché non ce la faceva più a sopportare gli insulti e l'umiliazione in rete, il suo è stato il primo caso riconosciuto di cyberbullismo in Italia.

Dottor Zoppi, quando leggete queste notizie, qual è la prima reazione?

Il primo pensiero è che non ce la stiamo facendo. Per quanto tante realtà si impegnino quotidianamente a fianco di questi ragazzi, ancora siamo lontani dall'essere un porto sicuro dove possono avere la consapevolezza di essere ascoltati.

Proviamo un grande dispiacere e il pensiero torna sempre a Caro che, ovviamente, ci guida tutti i giorni. C'è ancora tanta, tantissima strada da fare. Non abbiamo ancora reale contezza di quali siano le "fatiche" di questi ragazzi.

L'episodio di questi ultimi giorni pare fosse legato a episodi di bullismo a scuola, perché spesso le classi e gli istituti non riescono a essere luoghi sicuri?

La scuola deve essere un luogo sicuro, dove questi ragazzi possano davvero incontrare adulti che li accolgano e li ascoltino. In tanti istituti è già così. Anche se non possiamo delegare solo alle scuole il compito educativo e quello di accompagnare i ragazzi e seguirli nella loro salute, sia fisica che mentale.

Il 15enne di Senigallia aveva parlato con la famiglia che stava cercando di aiutarlo. Cosa possono fare i genitori di un ragazzo che racconta questi episodi?

Il consiglio è quello di muoversi il prima possibile. Tutta la comunità educante, gli adulti che hanno un ruolo educativo, ha l'obbligo di esserci, di dare una presenza certa quando il ragazzo riesce ad aprirsi e raccontare le emozioni che sta vivendo.

Bisogna essere pronti e mettersi in una posizione di ascolto, di un ascolto vero. A noi adulti piace sempre ascoltare la nostra voce, ci sembra di avere sempre le risposte pronte. In questi casi invece i ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati, accompagnati. I genitori non possono però essere lasciati da soli, la comunità dev'essere molto più presente.

Come ha raccontato l'avvocata della famiglia, i genitori avevano proposto al ragazzo di fare una denuncia, ma lui aveva detto di voler risolvere in altro modo. In questi casi cosa si può fare?

Esserci, accompagnarli e qualche volta forse insistere un po' di più sul tema della denuncia, o anche solo del raccontare ai dirigenti scolastici, agli insegnanti o agli allenatori. Creare davvero una rete che possa supportare davvero il ragazzo.

Visto che abbiamo menzionato l'avvocata, lei stessa ha usato un'espressione molto bella, dicendo che il ragazzo era "terribilmente gentile". Ecco, questo forse ha segnato un po' il momento cruciale. Il gesto del voler risolvere con una stretta di mano, purtroppo, non ha aiutato.

Perché un gesto del genere non arriva a chi compie questi atti?

A volte, per la totale mancanza di empatia e per un'incapacità di leggere e gestire le emozioni. Anche un gesto di apertura, bello, diventa un gesto che può far paura o far arrabbiare ancora di più.

In un ragazzo o un gruppo di ragazzi che ha come emozione diretta solo la rabbia, questa si trasforma in gesti concreti. Il pensiero è: "Io ti faccio male, punto".

La Fondazione nasce dal primo caso riconosciuto di cyberbullismo, quello di Carolina. Qual è il peso dei social e del web in questi dinamiche?

La responsabilità non è da dare ai social, ma a chi li usa. Il social è uno strumento, un veicolo, che viene usato bene o male, nella misura in cui si sa cosa è giusto e cosa è sbagliato. Quindi, da un lato, è importante dare ai ragazzi questa consapevolezza ma anche fargli comprendere che ciò che accade in rete ha anche conseguenze nella vita reale.

Quello che viene fatto nel mondo virtuale ha sempre e comunque conseguenze nella realtà. Se insulto una persona in una chat di Whatsapp, chi subisce l'attacco lo sente sulla pelle, nella carne, nella vita reale. È questo il tema su cui lavorare. Quando si dice che manca l'empatia, come si fa ad arrivarci? C'è una domanda molto semplice che andrebbe fatta ai ragazzi: "E se capitasse a te?".

Cosa consiglia ai ragazzi e le famiglie che si trovano in questa situazione?

Chiamateci. Un primo consiglio è questo, abbiamo un team di primo intervento a disposizione di famiglie e ragazzi che hanno bisogno di ascolto. Proprio pochi giorni fa ci ha contattato un ragazzo che da tre anni subisce atti di bullismo, ora è arrivato per lui il momento di parlarne e ne parleremo.

Ma non lasciamo passare troppo tempo, bisogna rivolgersi a realtà come la nostra, ce ne sono tante sul territorio nazionale, e confrontarsi con esperti che possono ascoltare e accompagnare in un percorso che può essere quello della denuncia, del sostegno psicologico, dell'intervento in classe così come quello del lavorare con tutto il contesto che sta attorno a chi è vittima.

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