Forse, dell’Amaca di Michele Serra sulle aggressioni agli insegnanti, si sarebbe dovuto scrivere subito, almeno per non incorrere in quella che sembra una delle molte critiche di Luca Bottura, che sabato 21 aprile scriveva
Io però ho aspettato, non solo per evitare errori di data come quello del sagace Bottura (sul sito di Repubblica l’Amaca è datata al 20 aprile, quindi non due giorni prima del suo tweet), ma perché non credo che la velocità sia necessariamente un valore, anzi: dovremmo forse imparare a essere in ritardo, per studiare e provare a comprendere prima di esprimere opinioni. Qualche ora di riflessione in più avrebbe probabilmente potuto evitare a Michele Serra non pochi problemi argomentativi, che, è il caso di chiarirlo subito, dipendono, più che dalla comprensione del commento da parte lettori, dalla scrittura dell’editorialista.
Un veloce controllo sui (pochi) dati statistici relativi al fenomeno del bullismo, ad esempio, avrebbe potuto suggerire a Serra di non porre come presupposto della sua analisi un enunciato come “non è nei licei classici o scientifici, è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore”. Secondo i dati Istat 2015 sul bullismo, infatti, quanto a vittime, “tra gli studenti delle superiori, i liceali sono in testa (19,4%); seguono gli studenti degli istituti professionali (18,1%) e quelli degli istituti tecnici (16%)”.
Ma la sostituzione del dato fattuale (o almeno statistico) con la percezione personale del fenomeno appare quasi meno grave rispetto alle deduzioni logiche che Serra fa discendere dal presupposto, con poche parole (“per una ragione antica, per uno scandalo ancora intatto”) a mitigare la violenza ideologica, probabilmente inconsapevole, contenuta nelle parole dell’editorialista di Repubblica.
Il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza.
Ma come si calcola il livello di educazione? Come si può valutare empiricamente un dato culturale come il rispetto delle regole? La conclusione del pezzo (“poveri: che oggi come ieri continuano a riempire le carceri e i riformatori”) avrebbe potuto suggerire all'autore una maggior cautela nel trattare il tema: la presenza di poveri nelle carceri è un dato che corrisponde soltanto al loro livello di rispetto delle regole o rispecchia anche le occasioni di impunità, diverse a seconda del ceto sociale di provenienza?
Ancora, nella replica di Serra alle critiche, si conferma l’analisi secondo cui le differenze di classe e la conseguente ignoranza sarebbero cause (o, almeno, concause, si specifica) di violenza: doppio salto logico carpiato, insomma. Primo, perché si continua a sostenere che l’ignoranza sia effetto diretto del basso ceto sociale. Secondo, perché la violenza sarebbe causata da questi due fattori. Emerge, allora, una confusione tra i concetti di causalità e di correlazione: la prima è un nesso logico stretto, per cui a un fattore corrisponde un effetto, la seconda vede diversi dati tra loro affiancati, che potrebbero essere legati da un nesso causale, ma anche no.
La pecca dell’analisi di Michele Serra è allora in quel naturalismo che lo porta a guardare la realtà e, nel descriverla così, a renderla immutabile: non ci sarebbe niente di male nell’identificare sgradevoli questioni sociali, c’è un problema nel trattarle con la superficialità del luogo comune, come dimostra l’assenza non solo di dati (che in effetti sarebbe stato prolisso citare), ma di corrispondenza tra presupposti e statistiche.
Non solo: l’analisi naturalistica di questa Amaca non descrive un contesto privo di responsabilità, ma addossa implicitamente le colpe sulla classe subalterna. Descrivere il basso ceto sociale come un fattore di rischio per comportamenti negativi identifica un’eventualità ambientale, controllabile solo in parte dai soggetti coinvolti; parlare invece di livello di educazione e di rispetto delle regole sposta l’analisi sul piano degli effetti, spacciando un’opinione (basata sulla propria percezione della realtà) come un fatto, rovesciando peraltro la posizione del povero da vittima (di un rischio esogeno, esterno da sé, di una società che lo esclude) a colpevole (di scarsa educazione, padronanza dei gesti, rispetto delle regole).
La padronanza dei gesti, la conoscenza dei codici sociali, peraltro, è quanto distingue la classe egemone da quella subalterna, per usare i termini cari a Gramsci. E allora torna in mente, anche se forse finisce per diventare un po’ un cliché, quel passo di Lettera a una professoressa, scritto collettivamente da don Lorenzo Milani e gli studenti della scuola di Barbiana, che mai come oggi sarebbe da rileggere.
Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi.
Appartiene alla ditta.
È una distinzione, tra classe egemone e subalterna, tra linguaggio letterato e volgare, che si ritrova ancora nella replica di Serra, il quale, nel generalizzare definendo tutte le critiche che gli sono giunte tramite i social network come insultanti o comunque fraintendenti il punto del suo commento, si limita a rispondere a Luca Telese, che scrive su un giornale, parla la lingua di Pierino del dottore, mentre i subalterni continuano a essere incompresi e incomprensibili per gli intellettuali che pretendono comunque di pontificarci sopra, utilizzando una parola diventata ormai passepartout: populismo.
Ma che cos’è il populismo che cita Serra? Per citare un’interessante analisi di Íñigo Errejón, “in mancanza di un dibattito più approfondito, il populismo rappresenta, pertanto, tutto ciò che eccede le élite tradizionali e altera il gioco delle parti in base al quale queste monopolizzavano ed esaurivano le opzioni politiche sul tappeto”. Per Serra, “il popolo è più debole della borghesia” e “cerca di mascherare” la debolezza con il populismo. Serra dimentica però di sottolineare che il populismo non è creazione del popolo: il popolo ne è combustibile e vittima, non fautore. La debolezza cui si ribella il popolo non è peraltro intrinseca e naturale (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, recita la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), ma è imposta da un contesto sociale perpetuato anche da un intellettualismo che, a ben guardare, non è estraneo ai difetti che imputa al populismo.
Lo sdoganamento dell’ignoranza, innanzitutto, come titolo di vanto non riguarda soltanto i movimenti populisti: se per costoro l’ignoranza è metro di giudizio, quasi una nota di valore, con l’uomo medio, l’uomo qualunque, catapultato in Parlamento, anche dall’altra parte chi sa viene bollato come “professorone” e dileggiato per una cultura che dovrebbe essere un pregio. La competenza viene calpestata a meno che non ci si atteggi a castigatore degli ignoranti: se infatti il semplicismo dilaga, aumenta anche il livello di aggressività degli scontri dialettici, con la tendenza, da parte di chi vuole mostrarsi razionale, a blastare, cioè a umiliare l’interlocutore, svergognando, più che i limiti delle argomentazioni, le persone che le sostengono: ci si lamenta dell’hate speech dei populisti, ma si risponde con una veemenza altrettanto violenta, che mira all’umiliazione dell’altro invece che al suo ravvedimento, alla sua esclusione dal dibattito invece che al suo coinvolgimento partecipativo e costruttivo.
E mentre l’ignoranza viene esaltata o sbeffeggiata, l’autonominata classe intellettuale sembra limitarsi a fotografarla, stupendosi delle reazioni invece di concentrarsi sul proprio ruolo nell’emancipazione popolare. Michele Serra individua nei “ragazzini tracotanti e imbarazzanti che fanno la voce grossa con i professori per imitazione di padri e madri ignoranti, aggressivi, impreparati alla vita” un sintomo di populismo e del “danno atroce inferto ai poveri”. Ma anche su quest’ultima analisi si intravede l’inconsapevole adesione a un’ideologia, quella thatcheriana, secondo cui “non esiste società, [ma] solo uomini, donne e famiglie”. Davvero è soltanto responsabilità delle famiglie l’educazione dei figli? Davvero la condotta degli studenti è effetto diretto e immediato degli insegnamenti impartiti dai genitori? E, se pure fosse, che ruolo hanno lo Stato, la politica, la società? L’operaio più educato e dignitoso può forse sottrarre la prole all’influenza di una società in cui Berlusconi utilizza il concetto di “pulire i cessi” come insulto, in cui Grillo si propone di mangiare i giornalisti per il gusto di rivomitarli, in cui Renzi se la prende(va) con gufi e minoranza tra le risate delle assemblee di partito?
Michele Serra ha scritto un articolo (che ha di fatto confermato nella replica alle critiche) in cui ignora studi di settore, confonde causa e correlazione, identifica una proporzionalità diretta tra etica e ceto sociale, demanda alle sole famiglie la possibilità di influenza sui figli. Resta una domanda, per quello che è stato (e che per palcoscenico decennale ancora è) un uomo di cultura: a che serve un intellettuale in una società fondata su naturalistiche differenze di classe?