Se si parla di Massimo Giuseppe Bossetti, condannato all’ergastolo per l’assassinio di Yara Gambirasio, non si dovrebbe dimenticare sua madre, Ester Arzuffi. I suoi tre figli non sono stati concepiti con il marito. I primi due li ha avuto dall’autista di bus. Il terzo chissà da chi.
Ma, invocando Dio e anche il papa, Ester Arzuffi ha sempre negato questa sua situazione, arrivando persino a ipotizzare un’inseminazione pirata da parte di un ginecologo (morto). Ester Arzuffi mentiva. Inventava. Truffava. La sua intervista video è ancora in giro. Forse, in nome del dubbio e della ragione, andrebbe ritrovata e confrontata coi video del figlio, che – senza un contraddittorio con qualcuno informato sui fatti – contengono un’altra sequenza di bugie. Quando dice che lui, il carnefice, “e Yara”, la piccola vittima, aspettano la verità, rivela la pasta umana della quale è fatto. Come osa lui parlare per Yara?
“Ragionevole”, secondo il dizionario Treccani, significa (lo riportiamo per esteso): “1. a. Che possiede la facoltà di ragionare, dotato di ragione: l’uomo è un animale ragionevole. (…) 2. a. Di pensieri, discorsi, sentimenti, azioni e comportamenti, conforme alla ragione, sensato: è una domanda r.; le sue parole mi sono parse r. (…)”.
Nel nostro diritto, che ha radici antiche e interpretazione moderne a volte un po’ sballate, è stato introdotto da qualche tempo questa frase, ma il cosiddetto ragionevole dubbio riguarda soltanto – provino gli innocentisti a consultare la Cassazione – la possibile “illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza”. Cioè, nel caso di un forte dubbio irrisolto, questo deve aver portato, per essere considerato anche ragionevole, a una sentenza che non sta né in cielo né in terra.
Ci permettiamo perciò di ricordare non solo che la sentenza di primo grado è stata confermata sino alla Cassazione, ma anche alcuni fatti precisi che rendono questa sentenza di condanna per Bossetti logica e al di là di ogni ragionevole dubbio. Quando Yara sparì, il 26 novembre del 2010, cominciava a cadere la neve su Brembate di Sopra e venne aperto un fascicolo per sequestro di persona. Si auto-accusarono non pochi mitomani, i quali aumentarono quando esattamente tre mesi dopo, in un pomeriggio di sole invernale, un aeromodello cadde dov’era stato abbandonato dal suo assassino il corpo della tredicenne.
La “farfalla”, come si chiamano le atlete della ginnastica artistica, era stata ferita a morte ed era deceduta tra il dissanguamento, il gelo della notte, il terrore.
Cominciò la caccia al sequestratore assassino. Fosse successo qualche decennio fa, forse (ma forse) Bossetti avrebbe evitato la galera. La Scienza ha però fatto passi da gigante, del tutto sconosciuti a un operaio da cantiere senza grandi studi alle spalle come Bossetti. La zolla di terra con il corpicino venne sollevata dal terreno e trasportata al laboratorio di medicina legale di Milano. Nessuna contaminazione, nessun errore tecnico.
Da una parte anatomopatologi, archeologi, botanici fanno il lavoro. Dall’altra parte, ci sono i carabinieri del Ris di Parma. Nessuna contaminazione nemmeno nei loro laboratori. Sugli slip (l'11 marzo 2011) e sui leggins (il 7 luglio) vengono individuati aloni con non poco (bastano picogrammi) Dna maschile. Sugli indumenti ci sono varie fibre, usate nei tessuti dei sedili delle auto. E ovunque le microparticelle metalliche che si trovano sui cantieri edili. In questo momento esiste una traccia di “Ignoto 1”, ma chi sia “Ignoto 1” lo sa solo lui.
Già circolano sul caso da prima pagina le prime bufale: ad esempio “il corpo è stato spostato”. Non è vero. I volontari della protezione civile non hanno mai – mai! – esplorato la zona dov’era Yara. E nelle sue povere mani è rimasto un ciuffo d’erba strappato negli ultimi spasmi. Da quel campo di sterpi nessuno ha spostato la piccola Yara. La logica è logica, i dubbi però fanno audience.
Purtroppo per l’assassino, il Dna, estratto attraverso otto kit diversi, dà sempre lo stesso risultato. Per spiegare bene. Il Dna è come un gigantesco libro fatto di cifre e numeri: e ogni essere umano "è" il suo libro, che tiene dentro i libri del padre e della madre, dei parenti, di antichi progenitori, del luogo di provenienza. Di “Ignoto 1” abbiamo dunque il librone, ma non il titolo.
Come trovarlo, come scoprirlo? Verrà prelevato il Dna a circa 25mila persone, ma nel frattempo un’intuizione dell’allora questore di Bergamo è vincente: tutti i soci della discoteca più vicina al luogo dove Yara è morta devono sottoporsi al test. Ed ecco che compare un certissimo parente dell’assassino: condivide infatti alcuni capitoli dello stesso libro. E vive a Gorno, in Valseriana, dove nell’ottobre del 2011 si concentra una parte dell’indagine.
Tutti i Guerinoni viventi, così si chiama la famiglia, vengono rintracciati: molte pagine del loro Dna coincidono con le pagine di "Ignoto 1", ma altre no. È un bel rompicapo per i tecnici. Test su test, ma nessuno è positivo. Ma come mai? Finché, come nelle tragedie, non riappare un morto: Giuseppe Guerinoni, autista di bus.
Lui è il padre. Già, ma “Ignoto 1” non è – dicono le analisi scientifiche – il figlio della moglie di Guerinoni. Ha un’altra madre. Chi? Lo potrà dire il Dna, ma prima del Dna arriva un maresciallo: tra saghe e chiacchiere di bar, tra feste patronali e visite agli orfanotrofi, scopre che Guerinoni aveva avuto per amante un’operaia che dormiva nel dormitorio aziendale. Ester Arzuffi.
Era lei? Certamente, in quel periodo – dicono le cartelle cliniche – era rimasta incinta di due gemelli. Le viene prelevato il Dna. Per la seconda volta. La prima volta, in uno dei laboratori, il suo Dna era stato confrontato non con quello dell’assassino, ma con quello di Yara. Errore di distrazione. Non si ripete.
La Scienza, questa sì al di là di ogni ragionevole dubbio, stabilisce che lei è madre di “Ignoto 1”. Ed è così, scendendo dai genitori e dalla loro storia segreta, che si raggiunge Massimo Giuseppe (come papà Guerinoni) Bossetti. Padre anagrafico diverso da quello naturale. Come ricordò il pubblico ministero in aula, "ci vorrebbero 300 milioni di miliardi di mondi come il nostro per avere un altro Massimo Bossetti". Quindi, le chiacchiere stanno a zero.
Il fax di chiusura indagini, datato 27 febbraio 2014 ore 17 – non è un caso, è la stessa ora del ritrovamento dei resti – lo incrimina per omicidio volontario aggravato. E se il Dna è considerato una prova oltre ogni ragionevole dubbio, che tipo è Bossetti e che cos’altro lo “lega” all’omicidio di una tredicenne?
Ha 45 anni, sposato, tre figli ed è carpentiere: sui cantieri si formano quelle particelle trovate ovunque tra i resti di Yara. Abita nella stessa zona. Quando Yara scompare, gira un furgone bianco: lui ne ha uno, un Iveco Daily passo 3450 modificato. Le fibre trovate sugli indumenti di Yara sono compatibili con quelle del suo furgone. Sul suo computer, compaiono ricerche porno che riguardano le tredicenni con alcune caratteristiche. Per quella sera non ha uno straccio di alibi. I compagni di lavoro lo chiamano “Il favola”, per la sua abitudine a mentire e la sua capacità di piangere a comando. Ha inventato di avere un tumore al cervello per farsi i fatti suoi: "Ma vai a dirgli che avevi un tumore al cervello! Ma che palle racconti!", lo rimprovera la moglie in carcere.
Questo è Bossetti, simile a sua madre Ester: tutti e due negano una verità evidente e acclarata dai test. Non ci si ricorda di Ester, però. E al cronista resta un dubbio, e gli sembra più che ragionevole: ma perché mai nessuno ha chiesto per uno come Bossetti, cresciuto con una madre come Ester, e con un padre che sembra un’ombra, una perizia psichiatrica? Evitiamo di riportare le lettere d’amore che si scambiava con una detenuta, ma che cosa c’è nella mente di Bossetti, che se ne sta dietro le sbarre del carcere di Bollate, sempre abbronzato, con l’abitudine di depilarsi totalmente e cospargersi di crema e vantarsi del suo aspetto?
Chissà se ricorda le parole dell’avvocato della famiglia Gambirasio: “Lei pare una persona tormentata, e non dal processo… Liberi la coscienza”. Accanto alla coscienza di Bossetti, dovrebbe esserci anche la coscienza di chi fa giornalismo non ponendo tutte le domande e praticando molte omissioni, ma questo è un altro discorso.