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Bologna, 30 anni fa la tragedia del Salvemini: 88 feriti, 12 studenti morti e tre militari assolti

A trent’anni dalla tragedia del Salvemini di Casalecchio di Reno, l’istituto tecnico colpito in pieno da un aereo militare durante un’esercitazione, provocando la morte di 12 compagni di classe della 2A e il ferimento di oltre 80 persone, Fanpage.it dedica un lungo speciale sull’accaduto, provando a ricostruire gli ultimi istanti di una vicenda drammatica e per molto tempo dimenticata.
A cura di Beppe Facchini
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“Ehi. C'ho delle forti vibrazioni… ho delle forti vibrazioni… ho i comandi laschi e mi sa che mi lancio”. “Allora dirigi il velivolo in zona disabitata”. “I comandi sono incontrollabili, bestiale, cazzo”. “D'accordo… allora riduci l'assetto, porta il muso sull'orizzonte e dirigi il velivolo su zona disabitata”. “Merda, mi la…”. “356… prova radio? 356… alfa 356? Mi senti?”

Sono da pochi secondi passate le dieci e mezza del 6 dicembre 1990 quando le comunicazioni fra la centrale radar di Villafranca di Verona e l'Aermacchi MB-326 dell'Aeronautica Militare, in volo per una esercitazione (“Missione 356”, appunto) si interrompono bruscamente. Il pilota, nonché unico membro dell'equipaggio, il tenente Bruno Viviani, ha ormai perso il controllo del mezzo in avaria e si eietta, finendo col paracadute sulle colline di Ceretolo, frazione di Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, riportando alcune fratture. Il velivolo, invece, cambia traiettoria, tocca la cima di un albero e colpisce in pieno la succursale dell'istituto tecnico “Gaetano Salvemini”, centrando la finestra della seconda A, dove la professoressa Cristina Germani sta tenendo la sua lezione di tedesco. Pochi secondi e scoppia l'inferno. A perdere la vita sul colpo, carbonizzati, sono 12 dei 16 alunni di quella classe: Deborah Alutto, Laura Armaroli, Sara Baroncini, Laura Corazza, Tiziana de Leo, Antonella Ferrari, Alessandra Gennari, Dario Lucchini, Elisabetta Patrizi, Elena Righetti, Carmen Schirinzi e Alessandra Venturi. Si salvano solo la docente, un ragazzo e tre ragazze. Una di loro viene trovata dai soccorritori sotto l'aereo, miracolosamente viva. Altre 88 persone rimangono ferite, alcune con gravissime ustioni, di cui 72 con invalidità permanenti. In quei momenti concitati tanti si gettano dalle finestre per sfuggire alle fiamme, fra le urla disperate di adolescenti che si ritrovano incredibilmente a vivere un incubo che segnerà per sempre la loro vita. Dimenticare certi momenti è impossibile. Anche se per anni la tragedia del “Salvemini” è rimasta sconosciuta ai più. In occasione del trentesimo anniversario dall'accaduto Fanpage.it, attraverso documenti e la voce di alcuni dei protagonisti, ha provato a ricostruire la vicenda e ad approfondire anche ciò che è successo dopo.

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IL PROCESSO – In seguito alle indagini della Procura di Bologna, infatti, si arrivò ad un processo con tre persone imputate di disastro aviatorio colposo e lesioni: il pilota Bruno Viviani, allora 24enne e con alle spalle oltre 130 ore di volo su mezzi come quello, il colonnello Eugenio Brega, comandante del 3º Stormo dell'Aeronautica Militare con sede proprio a Villafranca, e il tenente colonnello Roberto Corsini, ufficiale della torre di controllo della base veneta. A difenderli davanti ai giudici c'è il legale Mario Zito, dell'Avvocatura di Stato. Un particolare, questo, che all'epoca suscitò non poche polemiche, perché, sebbene le vittime si trovassero all'interno di una scuola, dunque anch'essa di proprietà dello Stato, il Ministero dell'Istruzione non richiese lo stesso patrocinio.

La Casa della Solidarietà di Casalecchio di Reno
La Casa della Solidarietà di Casalecchio di Reno

Con la sentenza di primo grado, arrivata a febbraio del 1995, i tre militari vengono condannati a due anni e sei mesi di reclusione, mentre al Ministero della difesa furono imputati i danni per responsabilità civile. Va precisato che tutti i risarcimenti sono stati liquidati, ma dal punto di vista penale, due anni dopo, con l'uscita dal processo di quasi tutte le parti civili (tranne le amministrazioni locali e i familiari delle vittime) la sentenza di secondo grado della corte d'assise d'appello di Bologna ribaltò la sentenza: tutti assolti, “il fatto non costituisce reato”. Nel 1998 la Cassazione ha poi rigettato gli ultimi ricorsi, confermando la decisione in secondo grado. La strage viene attribuita a un tragico incidente. Al posto della succursale del “Salvemini” oggi, in via del Fanciullo a Casalecchio, ha trovato sede la Casa della Solidarietà, che ospita associazioni di volontariato locali, oltre a Protezione Civile e Pubblica Assistenza. L’aula della strage fu nominata Aula della Memoria e la parete sventrata dall’aereo fu ricostruita sotto forma di finestra, lasciando intatto l’enorme foro lasciato dall’aeromobile. Per non dimenticare.

TRENT'ANNI DOPO – Ma cosa è successo quella mattina? Perchè Roberto Alutto e Vincenzo Gennari, genitori di Deborah e Alessandra e membri dell'Associazione Vittime del Salvemini non hanno più visto tornare a casa le loro figlie? Perchè Stefania Buldrini (che oggi insegna italiano proprio fra le nuove classi del suo vecchio istituto) ha dovuto vivere quella terribile esperienza così giovane? Perchè Alessandra Venturi, omonima di una delle vittime e compagna di Stefania nella classe proprio sopra la seconda A, è dovuta rimanere per quasi un mese in ospedale a causa delle ustioni, dovendo inoltre affrontare numerosi interventi di chirurgia ricostruttiva? Alcune risposte, evidentemente però insufficienti per identificare dei responsabili materiali di quanto accaduto, sono riportate nelle perizie e nelle oltre 500 pagine degli atti dei tre gradi di giudizio sul disastro aereo del “Salvemini”. Sarebbe stato utile poter rivolgere alcune di queste domande anche agli altri protagonisti della vicenda, ma non è stato possibile. Bruno Viviani, in servizio fino al 2000, non siamo riusciti a trovarlo. Del colonnello Brega, invece, si sa soltanto che si è congedato nel 1997, mentre Roberto Corsini ha proseguito la sua carriera militare fino ad arrivare, nel 2015, al Quirinale. Oggi è infatti Consigliere Militare del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ma non è stato possibile intervistarlo. E lo stesso vale per l'Aeronautica Militare che comunque, rispondendoci per email, “rinnova la propria vicinanza e solidarietà ai familiari delle giovani vittime, nella condivisione di un ricordo ancora vivo e doloroso nonostante il tempo trascorso. Quanto accaduto nella mattina del 6 dicembre 1990 rappresenta una delle pagine più drammatiche della storia del nostro Paese, una ferita indelebile nella memoria collettiva. Nonostante il procedimento giudiziario abbia stabilito che il tragico incidente non sia stato dovuto ad errore umano né a cause imputabili all’Aeronautica Militare, il doloroso ricordo di quella tragedia è ancora vivido in tutti gli appartenenti alla Forza Armata”.

La classe 2A del Salvemini
La classe 2A del Salvemini

"PIANTATA MOTORE" – Proviamo però a riavvolgere il nastro. La mattina del 6 dicembre 1990, una fresca e soleggiata giornata invernale a detta di tutti i testimoni, l'Aermacchi MB-326 è impegnato in un'esercitazione in bianco, cioè senza l'utilizzo di missili o altri strumenti offensivi, che prevede tre sorvoli su una postazione militare nella zona di Trecenta, in provincia di Rovigo, con partenza da tre punti diversi e ad orari determinati. Alle 9.47 (nelle carte la cronologia degli eventi è riportata secondo l'ora di Greenweich, quindi con un scarto in anticipo di sessanta minuti) decolla dall'aeroporto di Villafranca. Il primo passaggio non crea alcun problema, mentre pochi minuti dopo la seconda partenza si manifesta a bordo una “piantata motore”, un forte calo di potenza che rappresenta subito un campanello d'allarme. Viviani capisce che potrebbe essere necessario un atterraggio di emergenza e, nella peggiore delle ipotesi, anche l'eiezione. In contatto col Servizio Coordinamento e Controllo dell'Aeronautica Militare (Sccam) di Padova, dice di voler tentare un atterraggio a Ferrara, dove c'è un aeroporto piccolo, senza torre di controllo né postazione dei vigili del fuoco, ma che sicuramente è il più vicino rispetto a dove si trova in quel momento. Tramite il tasto del Relight, un dispositivo che serve a rialimentare il motore con un circuito alternativo, si accorge però che il mezzo si riprende (anche se “comunque non fa più del 72%” di giri al minuto, dice via radio) e così decide di puntare su Bologna, dove invece c'è un aeroporto più grande e attrezzato per casi del genere. L'uso continuativo del pulsante è però definito improprio dai giudici, oltre che “scaturito da una reazione individuale ad una situazione di emergenza non codificata, che ha avuto notevole impatto emotivo sul pilota”.

Il Relight, si legge, non serve infatti “in via generale per il sostentamento in volo, ma soltanto quale meccanismo di riaccensione del motore o nel caso di decollo con pioggia”. “È gravemente imprudente ritenere che ogni mezzo è buono purchè l'aereo rimanga in volo”, perchè ciò può anche significare “perdere il controllo della fonte di pericolo, fino al punto di non poter neanche governarlo al momento dell'eiezione”. Inoltre, tenendolo premuto ripetutamente, “aumentava la spinta dell'1% ogni minuto”, ma “non ripristina le condizioni operative precedenti alla piantata”. “Appare pacifico che ad un atteggiamento forzato e ad una eiezione realizzata quando l'aereo era ancora governabile”, Viviani, continuano i giudici, preferì “sostenere in volo l'aereo con un accorgimento di fortuna, con un motore che dava comunque solo il 72% di Rpm, in una situazione che non migliorava, ma che poteva certamente peggiorare”, aumentando così “in maniera considerevole i rischi conseguenti ad una eventuale caduta dell'aereo”. Non solo. Il collegio giudicante scrive anche che l'atteggiamento del pilota in quei momenti è “del tutto opposto a quello dell'agente modello, omettendo di seguire le procedure stabilite”, parlando inoltre di negligenze e imprudenza da parte di Viviani in tale situazione, oltre che di Brega e Corsini, i quali avrebbero omesso in sostanza di aiutarlo a dovere, ritardando fra l'altro nel mettersi in contatto col pilota e con “carenza di qualsiasi tentativo di capire di più sull'avaria”.

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LA PERDITA A BORDO – Il punto principale è proprio questo. A bordo dell'aereo, inspiegabilmente (le perizie hanno escluso errori nelle operazioni di manutenzione e preparazione al volo) da circa venti minuti prima dello schianto era in corso una perdita di carburante di cui nessuno si accorge. Dopo circa altri sette minuti dall'inizio della perdita, è la ricostruzione, è così cominciata di conseguenza anche l'avaria del motore, con l'incendio scoppiato in volo in seguito all'estensione del carrello, per l'atterraggio di emergenza, e all'assetto notevolmente picchiato dell'aereo, facendo defluire il carburante che a contatto col motore si è incendiato, rendendo il mezzo “ingovernabile in novanta secondi”. L'aereo in fiamme ha così preso la traiettoria già descritta, modificata successivamente sia dalla spinta dovuta all'eiezione del seggiolino e sia dal tocco fortuito con la punta di un albero non molto distante dalla scuola.

All'aeroporto “Marconi” di Bologna anche i vigili del fuoco erano stati nel frattempo avvertiti dell'arrivo del mezzo in difficoltà, senza vederlo mai arrivare. I giudici rilevano che l'eiezione è stata una scelta comunque corretta una volta che il pilota si è accorto che non c'era più nulla da fare, ma avrebbe dovuto rendersi conto della situazione prima di sorvolare il capoluogo emiliano. E lo stesso vale per i due superiori Eugenio Brega, comandante della base di Villafranca dal 1989, e il colonnello Roberto Corsini, all'epoca con funzioni di capo ufficio operazioni. Entrambi, quella mattina, erano su un altro MB-326 per un volo di addestramento terminato quasi in concomitanza con l'emergenza segnalata da Viviani. Mentre rientravano separatamente nei propri uffici, ricevettero informazioni su quanto stesse accadendo vicino Bologna e così “con i rispettivi apparecchi si mettevano immediatamente in ascolto”, intervenendo “in virtù di un codice morale” fra militari in aiuto del giovane pilota. Corsini, “che era soltanto un capoufficio” e “non certo l'ufficiale addetto al Sor" (Sale Operative di Reparto Aereo, ndr) interviene per primo identificandosi proprio con questa sigla e dunque facendosi “carico anche delle prescrizioni previste” per la gestione dell'emergenza. Ma “è assolutamente impensabile che occupasse la frequenza di emergenza per dare sostegno morale al pilota”, senza fra l'altro chiedere né come “da una piantata motore sia arrivato a un regime di giri del 72%”, né alcuni parametri “fondamentali per un motore in avaria”, come “la temperatura e soprattutto il consumo di carburante”. Cosa che “avrebbe fornito la consapevolezza di una perdita in atto”.

Roberto Corsini fra Trump e Mattarella: dal 2015 è Consigliere Militare del Presidente della Repubblica
Roberto Corsini fra Trump e Mattarella: dal 2015 è Consigliere Militare del Presidente della Repubblica

"UN OGGETTO PERICOLOSO SUL CIELO DI BOLOGNA" – Le stesse accuse vengono mosse nei confronti di Brega, che si inserisce nella conversazione radio poco prima del disastro. In aula afferma che “quale comandante dello Stormo non avevo un compito operativo diretto nell'ambito dell'emergenza in atto, ma controllavo quello che veniva fatto dal colonnello Corsini che in prima persona operava. È ovvio che essendo in difficoltà un mio pilota ero partecipe e pronto a offrire tutta la mia esperienza, se necessario”. Cosa che effettivamente prova a fare ma “quando ormai la situazione era divenuta tragicamente irrecuperabile” e solo “per dirgli di puntare il muso all'orizzonte e eiettarsi”. Secondo il tribunale bolognese avrebbe potuto fornire anche altre indicazioni e più tempestivamente. E dunque “la condotta degli ufficiali responsabili della sala operativa di base non è stata professionalmente adeguata alla situazione”, considerando anche le “mancate risposte date alla dichiarazione del pilota circa l'uso continuativo ed improprio del Relight”. Pertanto, i due “concorrevano nel disastro” colposamente. “Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, si legge ancora nelle carte, ritenendo “del tutto incredibili le affermazioni degli imputati i quali sostengono di essere intervenuti nel rispetto di un codice morale che impone di aiutare sempre il pilota in difficoltà per fornire un aiuto di carattere sostanzialmente psicologico. Tali affermazioni appaiono del tutto incompatibili col principio generale vigente in materia di comunicazioni radio, che impone di non impegnare le frequenze se non per messaggi strettamente necessari”.

Il nucleo centrale dell'impostazione accusatoria è stato comunque quello “di aver portato l'aereo sul cielo di Bologna”. In altre parole, il tenente Viviani avrebbe dovuto evitare di portare su una zona densamente abitata “un oggetto con quelle caratteristiche di pericolosità”. “I piloti di aerei militari impegnati in tempo di pace hanno l'obbligo giuridico di evitare che le situazioni di emergenza si trasformino in incidenti con gravi danni a persone e cose” e “la condotta di Viviani, sotto il profilo della tipicità colposa è di tipo misto, ove a comportamenti omissivi se ne affiancano altri discutibili” nel fornire tutte le indicazioni necessarie per far comprendere anche da terra cosa stesse succedendo a bordo. “Lo scambio di informazioni è inesistente o quanto meno incoerente o inorganico” con un “comportamento inadeguato vista la delicatezza della situazione”. Probabilmente avrebbe dovuto tornare indietro, concludono i giudici, “ma non considerò mai questa alternativa”.

Deborah Alutto, una delle 12 vittime della 2A
Deborah Alutto, una delle 12 vittime della 2A

ASSOLUZIONE E SILENZI – Dopo il risarcimento dei familiari (150 milioni per genitore e 60 milioni di vecchie lire a superstite) e delle parti civili (fino a 300 milioni per i feriti più gravi), senza dimenticare i funerali con oltre trentamila persone e la visita in terra bolognese dell'allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, nel 1997 arriva la sentenza di appello, nella quale si legge che “non si può fare addebito di colpa al pilota per aver comandato l'estrazione del carrello senza prima aver spento il motore”. La conclusione è che “la condotta fu in ogni caso priva di rilievo finchè non produsse alcun evento e non fu colposa quando l'evento si produsse per il sopravvenire di un fattore imprevedibile”. C'è dunque "un'inesistenza del rapporto di casualità fra il comportamento degli imputati e l'evento che ha portato alla morte di 12 adolescenti e il ferimento di oltre ottanta persone". “Molte osservazioni dei ricorrenti sono condivisibili, ma non sono ravvisabili comportamenti colpevoli”. “Ciò che mancò è il non aver spento il motore prima di estrarre il carrello per provare l'atterraggio planato” e anche se Viviani non avesse abbandonato l'aereo, questo “si sarebbe incendiato e avrebbe potuto creare altri danni abbattendosi al suolo”. Se avesse preso un'altra scelta avrebbe comunque comportato dei rischi, insomma, anche perchè, si legge, “in Pianura Padana ci sono numerosi centri abitati e agglomerati urbani”. Il giovane tenente “si trovò a pilotare un aereo mal funzionante ma capace di continuare a volare e, in relazione a quei precetti, non poteva che considerare suo dovere mantenerlo in volo almeno fino a quando non aveva acquisito altri elementi”. Inoltre Viviani “fece correttamente le sue scelte, mantenendo l'aereo fino a Bologna a quella quota”, realizzando così tutte le necessarie condizioni di sicurezza per sé e per gli altri. Non poteva di certo immaginare che sarebbe finita così, insomma. E fra l'altro, in quei momenti concitati, “non seppe mai che perdeva carburante e nessun congegno a bordo rilevò l'incendio”.

Le accuse emerse nel processo, è la conclusione dei giudici d'appello, sono deboli. Il fatto non costituisce reato. E la Cassazione lo ha confermato, con buona pace delle amministrazioni, dei familiari delle vittime e degli ex studenti del “Salvemini” che però, in occasione dei trent'anni da quel disastro, aspettano ancora quantomeno un confronto con gli altri protagonisti della tragedia e soprattutto delle scuse. Lo hanno confermato gli stessi intervistati. Non serviranno di sicuro a tornare indietro nel tempo o a riportare dai loro genitori dodici innocenti morti mentre si trovavano come ogni giorno a scuola, ma potrebbero almeno aiutare a chiudere definitivamente una vicenda sulla quale per troppo tempo c'è stato un insopportabile silenzio.

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