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Arriva la sentenza per gli assassini di Arrigoni – Dove abita la Giustizia?

Il tribunale militare di Gaza ha emesso l’attesissima sentenza per l’assassinio di Vik Utopia Arrigoni, l’attivista italiano in Palestina che invitava a ‘restare umani’. In molti invocavano Giustizia per Vik. E’ stata fatta? Ma – soprattutto – cosa sarebbe stato ‘giusto’?
A cura di Anna Coluccino
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vittorio arrigoni sentenza gaza

Che cosa significa Giustizia?
È questa la prima cosa che ci si dovrebbe chiedere ogni qual volta la si invoca a gran voce come contropartita di un'ingiustizia. E la Giustizia – all'alba del terzo millennio – non abita certo nella richiesta di morte per morte e dolore per dolore. Giustizia e vendetta non rimeranno mai, anche se continuano a flirtare nel cuore dei più. A questo punto della storia dell'uomo, dovremmo aver raccolto sufficienti evidenze per comprendere l'inattaccabile logicità di un semplice dato di fatto: non c'è nulla di giusto nella moltiplicazione della sofferenza e – se proprio si decide di ignorare questa ovvietà – che almeno si abbia il buon gusto di ammettere che non è nel nome della Giustizia che si agisce, ma per conto della Vendetta.

Per quanto catartico possa sembrare, per quanto consenta a ciascuno di liberare la propria oscurità, non è accanendosi sul reo che si cresce in umanità, che si evolve. Anzi, è proprio così che si sfama quella scintilla di barbarie ed efferatezza che vive in ognuno di noi: nutrendola si lascia che cresca, finché arriva a prevaricare tutto il resto e diventa legge. Giustizia non è sinonimo di castigo, casomai lo è di equità, che è cosa ben diversa. E allora? A quale destino sarebbe stato equo condannare gli esecutori materiali dell'assassinio di Vittorio Arrigoni? Quale sentenza avrebbe mai potuto aspirare alla qualifica di "giusta" per l'uccisione di un uomo che credeva negli esseri umani e nel loro intrinseco desiderio di pace, nella loro intima umanità? Non è facile rispondere a una domanda del genere, ma la vita di Vittorio Arrigoni – per coerenza e spessore – merita una riflessione più profonda sul senso della parola Giustizia. Ed io intendo farla. A costo di essere considerata un'ingenua priva di senso della realtà. Intendo raccontare qual è l'unica cosa che mi avrebbe sollevato anche solo un po' dalla dolorosa sensazione di perdita che ogni essere umano dovrebbe sentire quando scompare uno dei pochi che – nel mondo – continua a tentare la rincorsa all'Utopia. E lo fa in nome e per conto di tutti noi.

Oggi un tribunale militare di Gaza ha emesso l'attesissima sentenza per l'assassinio di Arrigoni. Dopo mesi di rinvii, tentennamenti, testimoni scomparsi, interrogatori ridicoli, procedure discutibili, latitanze sospette e il più totale, vergognoso disinteresse da parte dell'Italia (che per mesi si è spesa con incredibile solerzia per il destino dei marò in India e non si è mai degnata di rispondere agli appelli dei familiari di Vittorio Arrigoni) arriva il giudizio della corte:  per due dei quattro colpevoli la pena è l'ergastolo, il terzo è stato condannato a dieci anni di carcere, il quarto – condannato in contumacia perché riuscito a scappare dalla prigione a cielo aperto di Gaza – dovrebbe scontare un anno di carcere. Così è stata quantificata dalla "giustizia umana" la vita di Vittorio. Fatte salve le incongruenze del processo, si tratta di una sentenza tutto sommato normale, ordinaria. Una sentenza che lascia aperte voragini di senso e non risponde a nessuno dei perché più importanti dell'intera vicenda, ma non è questo il problema: il problema è che una sentenza come questa restituisce – forse – una seppur vaga sensazione di giustizia a chi Vittorio lo ha amato, ma in nessuno modo rende reale Giustizia alla vita di Vik.

“ La giustizia militare sta alla giustizia come la musica militare sta alla musica. ”
Groucho Marx

Per gli abitanti di Gaza, Vittorio era Vik Utopia. Lo chiamavano così perché viveva e lavorava ogni giorno lottando contro la sua stessa rabbia. E nello sforzo titanico di dominare il nero che in tutti noi preme per dar forza al desiderio di vendetta, ripeteva al mondo e a se stesso il suo mantra: Restiamo Umani. Viveva, lavorava come se davvero fosse possibile restare umani o tornare a esserlo o diventarlo; come se l'idea di trovare e raggiungere la pace non fosse cosa astrusa e contro natura. Persino dopo aver visto quel che aveva visto, persino sapendo quel che sapeva continuava a crederci. In tanti stentavano a condividere quella visione del mondo, cionondimeno lo amavano. Lo amavano perché li rinfrancava sapere che c'era qualcuno che agiva come se fosse possibile arrivare a vivere come esseri umani liberi e solidali, e finché qualcuno continuava a vivere secondo quella convinzione, esisteva ancora una possibilità.

Il brutale e insensato assassinio di Vittorio Arrigoni aveva un unico scopo: uccidere quella possibilità, massacrare l'utopia, mostrare quanto fosse stupido contrastare la violenza con la solidarietà, quanto fosse ingenuo e naif immaginare di porre fine all'ingiustizia con la non-violenza delle parole, della cura dei più deboli, della difesa dei diritti umani, delle mani tese a soccorrere. Mentre Hamas esplode i suoi razzi Qassam contro Israele in risposta ai quotidiani soprusi, ammazzamenti, bombardamenti dell'esercito sionista, Vittorio Arrigoni e altri volontari dell'International Solidarity Movement viaggiavano sulle ambulanze per evitare che i soldati israeliani le colpissero, accompagnavano i contadini e i pescatori palestinesi a lavoro per evitare che venissero feriti, uccisi o arrestati per aver osato sfamare se stessi e le loro famiglie, inventavano nuove pratiche di resistenza, nuove pratiche di solidarietà. Restavano umani, nonostante tutto.

La cosa creava non pochi fastidi a chi – nutrendo fin dalla nascita la propria fame di violenza – si sentiva attaccato da quel modo di vivere e pensare. Nello scontro tra violenze, la solidarietà è un nemico comune. C'è chi si sente a proprio agio nel vortice dell'orrore e non desidera affatto che finisca. C'è chi non può accettare che le sue regole e convinzioni vengano messe in discussione, che agli spari non si reagisca sparando ma ponendosi a protezione, resistendo. Perché è proprio in questo modo che il Potere viene delegittimato, mettendo in discussione le sue modalità: disattendendole le si annienta, le si priva del diritto di esistenza. Per questo in molti hanno tentato di far passare Vik per un utile idiota amico dei terroristi o – semplicemente – per un ingenuo sognatore. Perché vedere qualcuno che tenta l'impossibile mette in condizione di difetto chiunque abbia rinunciato da tempo all'impresa, arrendendosi a quel che tutti considerano "realistico". Ma è solo dubitando di quel che tutti danno per scontato che si superano i limiti umani e si può far avanzare – sebbene di un soffio – l'intera specie.

Quindi, alla luce di tutto questo, torno a chiedermi: con quale atto di Giustizia si poteva celebrare la vita di Vik? Una sentenza di morte sarebbe stata uno schiaffo alla sua intera esistenza, e per questo sua madre scrisse tempo fa al tribunale militare di Gaza chiedendo di non applicare la pena di morte al caso di Vittorio – com'è invece d'uso nella Striscia governata da Hamas – ma di rispettare le convinzioni di suo figlio eliminando la morte dei colpevoli dal novero delle pene. Vik non avrebbe mai voluto né accettato che la sua morte innescasse un vortice di nuove morti. Ma in che modo l'ergastolo di due degli assassini materiali rende giustizia alla sua vita? Volendo tralasciare l'aspetto più squisitamente politico del suo omicidio e tutte le ombre che si porta dietro, la carcerazione a vita di due uomini che resteranno rinchiusi per sempre in compagnia del loro odio, delle loro convinzioni, della loro inconsapevolezza; che ignoreranno chi era e cosa voleva l'uomo che hanno ammazzato, che rideranno per sempre della sua idea di mondo, beandosi delle loro gesta, vivendo la prigionia con l'orgoglio di chi porta una medaglia al petto per aver assassinato un nemico, non mi pare un degno simbolo di quel cambiamento che Vik sognava di innescare nella porzione di mondo che aveva scelto di curare, dedicandole la vita.

Forse non ci si può aspettare molto di più da un'umanità che rifiuta di mettere in discussione le sue più basilari convinzioni, ma questa sentenza non alleggerisce nemmeno d'un briciolo la pena per la perdita di Vik il sognatore. La loro punizione non modifica il reale come Vik avrebbe voluto, non apre nuove strade ma replica i soliti vecchi schemi. In un mondo migliore, gli assassini di Vik sarebbero stati costretti a vivere come l'uomo che avevano ucciso, a fare quel che lui faceva, avrebbero dovuto ascoltare tutto quanto chi lo amava pensava di lui, avrebbero dovuto passare qualche anno in compagnia della madre e della sorella di Vittorio e condividere la loro pena, avrebbero dovuto studiare il lavoro e il pensiero di quell'uomo la cui idea di società si basava sul benessere collettivo, avrebbero dovuto avere la possibilità di restare umani, o ritornare umani, o diventarlo. Ma questa, in fondo, non è che una ridicola Utopia.

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