La fine dell’estate, a Milano, non è scandita dalle piogge torrenziali o dall’arrivo del freddo, ma dall’aria che torna gradualmente a peggiorare. Parlo di Milano, perché ci vivo, ma il discorso vale per tutto il nord Italia. Per rendersene conto è sufficiente dare un’occhiata alla distribuzione dell’inquinamento da PM2.5 nel continente europeo: l’Italia è una delle nazioni più inquinate, ma a spiccare è una lunga macchia nera che copre l’intera area della pianura padana.
Ad oggi, il nord Italia è l’area più inquinata del continente europeo: per buona parte dell’anno le concentrazioni di particolato fine superano anche di quattro volte la soglia di respirabilità prevista dall’OMS, ed è stato calcolato che ancora oggi il numero di vittime italiane attribuibili all’inquinamento supera le 50.000 morti l’anno.
Ma l’Italia non è soltanto il paese che ospita le città più irrespirabili d’Europa, è anche uno dei paesi UE che sta facendo di meno per arginare il problema. Per questo è importante parlarne ora, in quell’intervallo ibrido tra la tregua arieggiata dell’estate e l’inferno inquinato dell’inverno, quando ancora non ci siamo assuefatti all’aria appesantita da tutto l’inquinamento (auto, riscaldamento, imprese produttive a pieno regime) che contraddistingue la stagione fredda.
Una normalità tossica
Fëdor Dostoevskij in tempi non sospetti aveva scritto che “la definizione migliore per descrivere l’essere umano è che si tratta di una creatura capace di abituarsi a tutto”. Più di recente, il romanziere britannico Tom Holt ha preso e rielaborato il concetto: “Gli esseri umani sono in grado di abituarsi virtualmente a qualsiasi cosa, se viene dato loro tempo a sufficienza e nessuna scelta.”.
Hanno ragione entrambi: siamo in grado di abituarci a vivere in condizioni che sulla carta fanno spavento, compreso respirare per intere giornate un’aria inequivocabilmente tossica. E questo anche perché, per quanto possiamo renderci conto che l’aria si va appesantendo di miasmi inquinati, che i vestiti puzzano a fine giornata, che i capelli si sporcano nel giro di mezz’ora, gli effetti più disastrosi dell’inquinamento atmosferico sono assai più difficili da registrare, e di fatto un’alta concentrazione di PM 10 e PM 2.5 incide pesantemente su un ventaglio di patologie molto più ampio e vario di quanto verrebbe normale pensare.
Le più prevedibili sono le patologie polmonari, come la broncopneumopatia cronica ostruttiva, le infezioni acute delle vie respiratorie inferiori, il rischio di insorgenza di cancro ai polmoni. Ma poiché le particelle più piccole, come le PM2.5, sono in grado di attraversare l’endotelio, raggiungere i capillari ed entrare nella circolazione sistemica, l’elevata concentrazione a cui siamo sottoposti in Europa determina una maggiore insorgenza di attacchi cardiaci, ischemie, ictus, aterosclerosi, insufficienza cardiaca, oltre ad aritmie ed ipertensione. Ma non è finita: sempre più studi mostrano che l’inquinamento urbano può incidere anche sulle patologie endocrine e gastrointestinali, sull’insorgenza diabete e obesità, sull’andamento delle gravidanze e sul decorso delle patologie neurologiche, l’Alzheimer in particolare. E poi, meno quantificabile ma non per questo trascurabile, c’è l’effetto sulla nostra psiche: negli ultimi anni sono stati pubblicati studi che mostrano come l’esposizione a lungo termine a PM10 e PM2.5 possa avere un effetto aggravante sui casi di depressione e sul rischio di suicidio.
Insomma, l’aria che respiriamo ogni giorno contribuisce a renderci più deboli e vulnerabili, sia dal punto di vista fisco che psicologico, oltre ad avere effetti già riscontrabili sulla degradazione dei bacini idrici e del suolo, sulla biodiversità e sulla resilienza degli ecosistemi naturali e agricoli. Parliamo di un problema talmente grave e trasversale che dovrebbe schizzare senza indugio in cima alle nostre priorità, eppure, un po’ come nel caso della crisi climatica (a cui del resto è inevitabilmente connesso), tardiamo a prendere misure drastiche. Perché?
Un problema invisibile ma risolvibile
Il fatto che in una grande città centinaia di migliaia di persone possano ritrovarsi quotidianamente a respirare in condizioni proibitive non è una novità. Già a metà del 1800, in Casa Desolata, Charles Dickens descriveva un ambiente urbano in cui “…il fumo scendeva dai comignoli, producendo una pioggerellina nera e soffice, con fiocchi di fuliggine grandi come fiocchi di neve in veste da lutto, si potrebbe immaginare, per la morte del sole...”.
E il problema in parte è proprio questo: l’inquinamento atmosferico nelle zone più urbanizzate è un fatto talmente radicato nella storia da essere diventato una costante della vita cittadina, nelle metropoli italiane come in altre grandi città europee, aggiungendosi ai tanti problemi ambientali che è tremendamente facile non affrontare. Rispetto al passato, tuttavia, ci sono due importanti differenze: la prima è che l’inquinamento è meno visibile (sebbene in alcuni giorni la concentrazione di particolato sia tale da ridurre la visibilità); la seconda è che abbiamo a disposizione una varietà di soluzioni che potrebbero essere implementate in tempi stretti.
Innanzitutto, per arginare il problema sarebbe necessario intervenire sulle principali fonti di inquinamento, come il riscaldamento domestico, il trasporto privato e le emissioni industriali. In una situazione in cui il riscaldamento degli ambienti ancora dipende in percentuali consistenti dalla combustione di combustibili fossili, siano essi gas o carbone, l’isolamento termico degli edifici – spesso additato come uno spreco di investimenti pubblici – dovrebbe diventare una priorità; in parallelo, è di primaria importanza incentivare sistemi di riscaldamento ecosostenibili (geotermico, pompe di calore, solare termico, etc.)
Un discorso analogo va fatto per il trasporto privato: se da un lato è vero che un passaggio all’elettrico consentirebbe di ridurre notevolmente le emissioni, dall’altro è anche vero che l’inquinamento da particolato è anche legato alla consunzione di pneumatici, freni e manto stradale. È quindi importante privilegiare le soluzioni che vadano nella direzione di un abbattimento dell’utilizzo di veicoli privati (potenziamento del trasporto pubblico, della pedonabilità e ciclabilità delle reti urbane; incentivazione seria dello smart-working; disincentivazione del pendolarismo), e di una pianificazione urbana che massimizzi le infrastrutture verdi e riduca al minimo l’inquinamento (l’approccio “città a 30 all’ora” va in questa direzione).
Da tutto ciò emerge chiaramente come un problema così sistemico e radicato non possa essere risolto unicamente affidandosi alla buona coscienza dei cittadini. C’è bisogno di misure politiche concrete e trasversali, non soltanto a livello di amministrazione cittadina, ma anche e soprattutto a livello governativo.
Una questione di priorità
Una recente indagine del Guardian ha rivelato che in Europa si respira aria tossica praticamente ovunque. Come abbiamo visto, questo tipo di ambiente malsano sta già producendo danni incalcolabili, tanto secondo l’OMS già oggi un terzo delle morti premature legate a infarti, ictus cerebrali e tumore ai polmoni è direttamente attribuibile all’inquinamento da particolato.
Una “pandemia al rallentatore”, per citare una locuzione ormai usata comunemente in sede europea, che ha portato la Commissione Europea a stilare una direttiva per rendere più stringenti le misure di controllo dell’inquinamento atmosferico. Il documento ha ricevuto a giugno il via libera della Commissione ambiente, ma ha poi incontrato una strenua opposizione da parte del settore industriale e da gruppi parlamentari di centro-destra ed estrema destra, che hanno bollato i limiti come “troppo stringenti” e dunque “insostenibili” a livello economico e produttivo.
È curioso notare come questa proposta in Italia abbia incontrato un’opposizione in particolare da parte di regioni come il Veneto, la Lombardia, l’Emilia-Romagna e il Piemonte, che sono precisamente quelle che ospitano le città più irrespirabili. Come a dire: certo, è importante ridurre le morti per inquinamento, ma non possiamo permettere che questo danneggi la nostra economia.
È un’argomentazione ormai tanto trita quanto scellerata: l’idea che non si possano porre limiti stringenti alle attività inquinanti paventando una catastrofe economica e produttiva, è figlia della stessa retorica adottata da quanti hanno interesse a ritardare l’azione climatica. La realtà è che esistono procedure per accelerare la transizione ecologica, nelle città come fuori, il vero problema è che adottare simili misure va a ledere gli interessi economici di chi da decenni, e consapevolmente, investe miliardi per mantenere in animazione sospesa la più pericolosa delle ideologie: ossia che si possa rendere sostenibile un sistema economico e produttivo che privilegia la gestione di una ricchezza astratta (il denaro in tutte le sue forme) alla tutela di una ricchezza reale (gli ecosistemi), da cui però inevitabilmente dipende.
Intanto, lo scorso 15 settembre, il Parlamento UE ha dato semaforo verde alla direttiva sulla qualità dell’aria: il nuovo testo prevede un aumento dei punti di campionamento per il monitoraggio della qualità dell’aria; una maggiore uniformità dei valori raccolti, così che possano essere più facilmente comparabili e interpretabili dal pubblico; la predisposizione di misure di emergenza in occasione del superamento di determinati limiti e il diritto a un risarcimento per chi dovesse subire ricadute sanitarie; ma soprattutto stabilisce nuove soglie per la concentrazione limite di PM10 e PM2.5.
Un passo nella direzione giusta, senz’altro, ma allo stesso tempo una vittoria monca. A seguito delle forti pressioni da destra, l’allineamento dei parametri alle linee guida dell’OMS è stato rimandato dal 2030 al 2035. Cinque anni che con ogni probabilità si tradurranno in migliaia di morti evitabili; sostanzialmente, altre vite umane sacrificate sull’altare dello status quo fossile. A quanto pare c’è chi lo considera un compromesso accettabile.