Ci ha ripensato la Oerlikon (l'azienda di Rivoli leader nella produzione di ingranaggi per trasmissioni con ben 700 dipendenti in tutta Italia) e – dopo un fiume di proteste – ha reintegrato il suo dipendente Antonio Forchione, dopo averlo licenziato perché "inabile" al lavoro a causa di un trapianto di fegato che l'ha guarito da un tumore letale.
Ha contato l'indignazione che si è levata in tutta Italia in queste ore contro la scelta di ritenere l'essere umano un banale meccanismo produttivo pronto per essere buttato al primo segno di usura; ha contato la solidarietà dei colleghi che hanno proclamato uno sciopero per dichiarare con forza la propria vicinanza ad Antonio e, forse, ha contato l'umanità che in questa storia sembrava tradito e che ha volte riesce ad avere la meglio.
Ma soprattutto Antonio è tornato ad essere un persona: un lavoratore, certo anche quello, con tutte le avventure (e le sventure) che la quotidianità dell'esistenza ci impone. La malattia, in uno Stato sociale, non è e non può essere la certificazione di un sopravvenuto fallimento professionale ma piuttosto un accidente di percorso che ha bisogno di uno Stato (e un'imprenditoria) che stringa la rete e offra il proprio sostegno. Antonio Forchione è riuscito a reclamare il diritto alla cura. Cura nel senso deospedalizzato del termine: quella cura che promette a qualsiasi cittadino (e soprattuto ai più fragili) di non rimanere soli. Antonio (e le voci solidali intorno a lui) è riuscito a reintrodurre nel dibattito pubblico l'etica del lavoro e la responsabilità sociale dell'imprenditoria. Per oggi (sperando che duri il più a lungo possibile) l'impresa non è solo il risultato finale di un bilancio ma anche un insieme di fragilità, esigenze e bisogni che bisogna prendersi l'onere di caricarsi.
Così il ripensamento della Oerlikon sembra riportarci indietro a qualche decennio fa; spazza in un secondo tutta la trita tiritera della produttività come unico dio e ci riporta con i piedi per terra, tra gli uomini. Di colpo la stampa e l'opinione pubblica si accorge che quelle matricole che a turno occupano la catena di montaggio sono persone che ridono, piangono, si innamorano, si lasciano, si ammalano, si inorgogliscono per i figli e talvolta hanno una fottuta paura di morire, si mettono sotto i ferri sperando di potersi risvegliare e esultano per una malattia scampata che sembrava mortale.
E mi pare che sia dentro un mondo, dietro alla matricola di Antonio.