Alluvione Emilia Romagna, Ispra: “In Italia si continua a costruire troppo: rinaturalizzare le città”
Consumo del suolo, agricoltura intensiva e cambiamenti climatici. Sono questi i temi che ruotano intorno all'alluvione in Emilia Romagna. Il dissesto idrogeologico è alla base dei dati raccolti da ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, sul consumo del suolo italiano. Nel 2021 l'Emilia Romagna, soprattutto nelle zone di pianura, dove si concentrano gran parte delle attività, ha raggiunto una superficie artificializzata, pari al 9% del territorio complessivo, a fronte di una media nazionale che è intorno al 7%, e di una media europea che è intorno al 4%. Numeri che hanno portato a una impermeabilizzazione del suolo, incapace di assorbire l'acqua che finisce per scorrere in superficie in quantità eccessiva.
“Si tratta di un fenomeno presente soprattutto nelle pianure – spiega a Fanpage.it Michele Munafò, ingegnere per l'ambiente e il territorio e responsabile scientifico dei rapporti nazionali sul consumo di suolo presso ISPRA – dove gli insediamenti urbani, le infrastrutture e gli edifici sono maggiormente sviluppati, e dove in aggiunta si registra anche un degrado del suolo dovuto all'agricoltura intensiva e a fenomeni di siccità. C'è un legame tra come è stato gestito il territorio in Italia e quanto sta accadendo in questi giorni, si tratta di conseguenze che sono note da tempo e che sono un problema evidente e non casuale: noi continuiamo a costruire moltissimo nel nostro paese, troppo”.
Quanto accaduto in Emilia Romagna trova radici nel dissesto idrogeologico, nel consumo del suolo i cui dati, raccolti da ISPRA, sono allarmanti in Italia
C'è un legame tra come è stato gestito il territorio in Italia e quanto sta accadendo in questi giorni, si tratta di conseguenze che sono note da tempo e che sono un problema evidente e non casuale: noi continuiamo a costruire moltissimo nel nostro paese. Nel 2021 abbiamo rilevato 70 km quadrati di nuove coperture artificiali, ovvero strade, edifici e cantieri di vario tipo che hanno sostituito arie naturali ed agricole: si tratta del valore più alto dell'ultimo decennio. Dati che ci dicono che dobbiamo rallentare questo processo di perdita del suolo naturale, ma noi invece lo stiamo accelerando, visto che l'ultimo anno abbiamo costruito ancora di più.
Quali sono le conseguenze?
Ci sono due conseguenze importanti, la prima è che molte di queste costruzioni avvengono in aree a pericolosità idraulica: di fatto, come nel passato, continuiamo a costruire dove sarebbe stato meglio non farlo. Se costruiamo in aree inondabili sappiamo che con un certo tempo di ritorno qualcosa succederà, e questo prima o poi tenderà a essere sempre più frequente, a causa anche dei cambiamenti climatici. Gli eventi di queste settimane ne sono una dimostrazione.
La seconda questione è che quando noi costruiamo, non facciamo altro che impermeabilizzare un suolo, cioè un suolo che tratteneva l'acqua, la filtrava per poi rilasciarla pian piano, non riesce più a farlo, quindi l'acqua finisce per scorrere in superficie molto rapidamente e in quantità elevatissime. Se ricopriamo un suolo di cemento o asfalto la conseguenza è che l'acqua resta in superficie e scorrendo rapidamente aggrava i fenomeni di dissesto come accaduto in Emilia Romagna. È come se il suolo fosse una spugna: se la mettiamo sott'acqua assorbe il liquido per poi rilasciarlo pian piano e asciugarsi, se invece sotto l'acqua mettiamo un telo di plastica, l'acqua va via subito, e la stessa cosa avviene sul nostro suolo.
Si tratta di un fenomeno presente soprattutto nelle pianure dove gli insediamenti urbani, le infrastrutture e gli edifici sono maggiormente sviluppati, e dove abbiamo in aggiunta un degrado del suolo dovuto all'agricoltura intensiva e a fenomeni di siccità, oltre a tutta una serie di situazioni che si aggiungono a questa impermeabilizzazione e che riducono ulteriormente la capacità del suolo di regolare il ciclo delle acque. Da un lato il consumo del suolo, dall'altro la modifica del ciclo dell'acqua: due facce della stessa medaglia che aumentano la probabilità che si verifichino questi fenomeni.
Cosa si può, anzi, si deve fare per provare a prevenire quanto accaduto in Emilia Romagna?
Nello specifico l'Emilia Romagna, soprattutto nella parte di pianura dove si concentrano gran parte delle attività, è molto artificializzata, si tratta del 9% del territorio complessivo, a fronte di una media nazionale che è intorno al 7%, e di una media europea che è intorno al 4%. Questa percentuale continua a crescere: nell'ultimo anno le regioni che in Italia hanno avuto un maggior consumo di suolo, dunque che hanno costruito di più sono Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
Quello dell'Emilia Romagna è un territorio complesso e molto fragile da diversi punti di vita, ma è chiaro che è proprio per questo che avremmo dovuto avere una maggior attenzione: dovremmo evitare di continuare a costruire e quindi aggravare ulteriormente la situazione. Dobbiamo invertire il processo, ovvero permeabilizzare il territorio, ripristinare le superfici naturali, qualcosa che oggi sembra impossibile ma che sarebbe estremamente urgente e importante per adattarsi ai cambiamenti climatici che non possiamo più ignorare. Sono qui, di fronte a noi e ci obbligano ad attuare delle azioni forti sul territorio che, dal mio punto di vista, devono partire proprio dal ripristino della capacità naturale del suolo di assorbire l'acqua.
Ci sono centinaia di migliaia di famiglie che vivono in zone a rischio frane: quanta consapevolezza c'è rispetto a questi dati?
I dati sono pubblici, e le mappe sono accessibili a tutti. Se ci sia una reale cultura collettiva questo lo dubito, sono certo che stia crescendo ma c'è ancora molta strada da fare. Sono certo che tra una settimana, o tra un mese, quando sarà, inizieremo a lamentarci della siccità, dimenticando quello che è successo in Emilia Romagna, fingendo che non siano facce della stessa medaglia. Tra l'altro se parliamo di caldo e siccità, uno dei problemi più evidenti di questo periodo è il cosiddetto fenomeno dell'isola di calore urbana: in estate nelle città fa molto caldo, che è un ennesima deriva dei cambiamenti climatici.
La cosa significativa è che le soluzioni al problema della regolazione del ciclo dell'acqua sono le stesse che permettono di regolare anche il microclima, ovvero rinaturalizzare le nostre città. Aumentiamo ad esempio le aree permeabili e quelle vegetate, con alberi e verde, che permettono di regolare anche la temperatura nelle città. La soluzione, come si dice in termini tecnici, è basata sulla natura. Dobbiamo incentivare quelle soluzioni che sfruttano quello che la natura ha sviluppato col tempo per regolare i nostri ecosistemi.
Calabria, Liguria, Campania: c'è il rischio che quanto accaduto in Emilia Romagna si verifichi anche in altre regioni?
C'è la certezza che questo avverrà. Il nostro è un territorio fragile composto da superfici enormi caratterizzate da pericolosità da frana e da alluvione, attività sismica o vulcanica. Noi complessivamente abbiamo quasi il 20% del territorio nazionale classificato da pericolosità elevata o media, il che vuol dire che sappiamo che periodicamente questi fenomeni avvengono, e sappiamo anche dove. Soprattutto sappiamo dove sono presenti edifici e infrastrutture in numero eccessivo.
Ad esempio sull'isola di Ischia abbiamo appurato che nuove costruzioni degli ultimi 10 anni sono state fatte per un terzo nelle aree a pericolosità da frana: se arriva la frana, non si può dire che nessuno se lo aspettava. Non dobbiamo soltanto non costruire più in aree inondabili o soggette a frane, ma soprattutto dobbiamo capire cosa si è fatto in passato e ragionare su come liberare quelle aree per evitare che situazioni del genere possano provocare danni e morti, come accaduto in Emilia Romagna e come succede ormai troppo spesso.