Alex ucciso a 2 anni a Perugia, la mamma condannata 20 anni: riconosciuto vizio parziale di mente
È stata condannata a venti anni di carcere Erzsebet Katalin la donna accusata dell’omicidio del figlioletto di due anni, il piccolo Alex, ucciso a coltellate nel 2021 a Po’ Bandino, frazione di Città della Pieve, in provincia di Perugia. La Corte D'assise di Perugia oggi ha dichiarato colpevole la 44enne ungherese, accusata di omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione ma le ha riconosciuto un parziale vizio di mente, prevalente sull'aggravante della premeditazione.
Una pena dunque decisamente meno pesante di quella richiesta dalla pm che sosteneva l'accusa che durante la requisitoria aveva chiesto 30 anni di carcere. Secondo la ricostruzione accusatoria, la donna uccise il figlio con sette coltellate in un casolare abbandonato, ex centrale Enel. Poi si recò con il corpo del bimbo in un supermercato, appoggiandolo su un nastro delle casse e affermando che uno sconosciuto lo aveva aggredito approfittando di un suo momento di distrazione.
Secondo il pubblico ministero Manuela Comodi, aveva premeditato tutto. "Aveva scelto il luogo ideale per l'omicidio e ha abbandonato il passeggino prima. Gli ha tolto poi la maglietta insanguinata e gliene ha messa una pulita. Aveva consapevolezza di ciò che aveva fatto" ha dichiarato il sostituto procuratore in aula. Secondo la Procura perugina, l'imputata "una settimana prima dell'omicidio aveva saputo che il tribunale le aveva tolto l'affidamento del figlio e lo aveva dato in maniera esclusiva al padre", quindi "l'idea di uccidere era molto precedente al fatto, frutto di uno scompenso improvviso ma di determinismo consapevole", ha sottolineato il pm.
Al contrario, secondo i difensori della donna, quando ha ucciso suo figlio Erzsebet Katalin era in tale stato mentale "da escludere la capacità d'intendere o di volere" e per questo ne avevano chiesto l'assoluzione per difetto di imputabilità, con applicazione della misura di sicurezza più idonea. "Le emergenze istruttorie ci consegnano una realtà composita nella quale, da un lato, la paternità della condottaomicidiaria appare riconducibile all'imputata; dall'altro, l'imputabilità della medesima risulta compromessa da una grave patologia mentale presente anche al momento del fatto criminoso" hanno spiegato i legali in aula